il Giornale, 9 marzo 2024
Intervista a Francesca Cappelletti
Già nel Cinquecento e nel Seicento, nelle corti italiane, c’erano donne – bellissime, nobili, potenti – capaci di rendersi «personaggio», di mettere in scena una rappresentazione di sé e di fare di questa rappresentazione una moda. La forma attraverso cui tutto ciò si realizzava era il ritratto. È su questa realtà artistica, sociale, storica, politica e di costume che Francesca Cappelletti si concentra, da storica dell’arte (è direttrice della Galleria Borghese dal novembre del 2020), nel saggio Le Belle. Ritratti femminili nelle stanze del potere (Mondadori, pagg. 180, euro 21).
Francesca Cappelletti, chi sono «Le Belle»?
«Sono una serie di ritratti realizzati alla fine del Seicento a Roma da un pittore chiamato Ferdinando dei ritratti. Il suo vero nome è Jacob Ferdinand Voet, ma è uno di quei casi in cui l’opera è più famosa dell’artista, come la Fontana di Trevi... Queste serie sono conservate soprattutto al Palazzo Chigi di Ariccia ma dalla bottega di Ferdinando uscirono altre versioni, copie e originali che si diffusero in tutte le corti dell’epoca».
Chi sono queste donne?
«Sono aristocratiche, delle famiglie più importanti di Roma, ritratte tutte nello stesso formato; quindi il concetto è proprio quello di serie: cinquanta ritratti delle stesse dimensioni delle donne più belle di Roma».
Sono «solo» belle?
«Rivestono anche un ruolo. I loro destini determinano quelli delle grandi corti, attraverso matrimoni importanti e accordi fra dinastie. Quindi queste serie sono una documentazione della società aristocratica femminile nell’ambito di una logica di trattative; del resto, già nel Rinascimento i ritratti femminili sono legati a fidanzamenti e matrimoni. La cosa interessante è che questa enfasi sul ritratto, che rinasce già alla fine del ’500, è legata a donne d’eccezione».
Quali?
«Innanzitutto, Maria Mancini Colonna. Arriva a Roma dopo essere stata allontanata dalla corte di Francia perché Luigi XIV si è innamorato di lei, che è nipote del cardinale Mazzarino... La sua storia coinvolge la politica ai livelli più alti. Lo zio la chiama a Parigi, poi lei sconvolge tutti i suoi piani e quindi la rispedisce a Roma affinché sposi un principe romano. Torna nella capitale con questa fama di personaggio burrascoso e di bellezza pericolosa, al punto da fare innamorare il re di Francia».
Che nesso c’è fra Maria Mancini e Palazzo Ariccia?
«Negli anni ’60 del Seicento Voet fa ritratti francobollo ma anche a figura intera e lavora soprattutto sull’immagine di Maria, che è molto chiacchierata per il suo rapporto intenso col nipote del Papa, Flavio Chigi, che è il committente della serie...».
Che ruolo ha Maria?
«Promuove la rinascita del ritratto femminile in serie, suggerendo a Chigi di commissionare queste serie di Belle e contribuisce a far rappresentare queste donne anche come compagine sociale forte, come gruppo. Insomma, il fatto che nelle corti d’Europa si voglia il suo ritratto fa sì che vengano richiesti anche quelli di altre donne famose; queste serie poi magari vengono integrate con quelle di Belle locali, come accade a Torino. E così, a fine Seicento, c’è una vera moda».
Però lei dice che queste «stanze» di ritratti femminili esistevano già alla fine del ’500.
«Sì, studiando e leggendo gli inventari dei Palazzi, mi sono resa conto che queste stanze esistevano già; il problema è che le opere si sono disperse, perciò le conosciamo solo attraverso i documenti. Per esempio dagli inventari dei palazzi degli Aldobrandini, dei Farnese o dei Borghese, dove c’era una stanza con 54 ritratti di dame. Scipione Pulzone, uno specialista, fa una serie di Belle, però sono sparite».
Chi sono queste altre «Belle»?
«Sono tutte collegate a un personaggio fondamentale di questo periodo, Clelia Farnese, una donna molto chiacchierata e spesso sotto attacco. Anche qui, l’oggetto del ritratto è fondamentale per scatenare la moda...»
Ci racconti di Clelia.
«Ha una biografia complicata: è figlia illegittima del cardinale Alessandro Farnese, che la fa crescere dalla propria sorella alla corte di Urbino e poi ne decide le nozze con Giovan Giorgio Cesarini, che appartiene all’aristocrazia romana più antica e le garantisce un posto in società. Ma Clelia è bellissima e ammiratissima: perciò, siccome il cardinale aspira a diventare Papa, ogni volta che c’è un’elezione la spedisce lontano da Roma...».
Come finisce?
«Diventa vedova e il padre tenta addirittura di farla rapire. Inutilmente, perché la sua aspirazione al pontificato non si realizzerà mai. A Palazzo Barberini c’è un ritratto di Clelia, con gioielli e abiti eleganti: è il Ritratto di dama di Jacopo Zucchi e, secondo me, era parte di una serie di Belle. Infatti, quando Montaigne va a Roma, visita Palazzo Cesarini e racconta che Clelia è la donna più bella di Roma e che lì c’è una serie di ritratti di donne... Perciò ho pensato ci potessero essere queste serie, già allora, intorno alla figura catalizzatrice di Clelia».
Altre protagoniste?
«Olimpia Aldobrandini, erede delle immense fortune del cardinale Aldobrandini, nipote di Papa Gregorio XV e collezionista. Adotta una strategia diversa e resta nascosta. Sposa Paolo Borghese, che muore subito, e allora lei, vedova, nel mirino dei suoceri, si asserraglia nella sua villa, per decidere da sola della propria sorte».
E poi?
«Alla fine si risposa col nipote di Papa Pamphilj, Camillo, che rinuncia al cardinalato: un matrimonio che fa scalpore, lei una vedova ricchissima, lui che rinuncia alla porpora... E inizia una specie di lotta con la madre di Camillo, Olimpia anche lei».
Oltre ai ritratti ci sono le Veneri.
«Anche Clelia è raffigurata in una statua di Venere, e come Anfitrite trionfante sul mare nella Pesca del corallo di Zucchi, in uno slittamento fra la più bella dell’epoca e la dea della bellezza... Allo stesso modo, Maria Mancini è Venere nel Paesaggio con giudizio di Paride di Dughet, alla Galleria Colonna. Olimpia è una principessa e, come abbiamo visto, non si fa rappresentare come Venere, però una delle prime testimonianze di Camerino di Venere è proprio a Palazzo Pamphilj: forse fu commissionato da Camillo, ma include dipinti della collezione di Olimpia».
Ce ne sono altri?
«Questi camerini delle Veneri erano stanze presenti nei palazzi romani dell’epoca: una sorta di paragone, fra il mitologico e l’erotico, fra bellezze antiche e contemporanee. Venere ritorna sempre nel ritratto femminile, anche a inizio Ottocento: l’ultima è la Venere vincitrice, Paolina Borghese, scolpita da Canova nel 1803, meravigliosa».
E invece gli autoritratti delle artiste?
«Servivano comunque per autopromuoversi e sono interessanti per come si struttura l’immaginario femminile. Ho analizzato in questo senso Lavinia Fontana, Artemisia Gentileschi e Sofonisba Anguissola, che è stata la prima a proporre la sua immagine: l’idea è che l’artista donna abbia una educazione umanistica e le maniere dell’aristocratica».
Una autoaffermazione?
«Per esempio, all’inizio Lavinia Fontana si propone come fanciulla beneducata, con strumenti musicali, tavolozza e disegni. Ma, quando ormai è una artista affermata, e viene chiamata a Roma, lavora su Minerva in atto di abbigliarsi, che probabilmente è un suo autoritratto traslato: non dipinge Venere bensì Minerva, la dea della sapienza, si propone non solo come una bellezza seducente – mai vista una Minerva così... – ma per le sue qualità intellettuali».
Queste «Belle» diventeranno una mostra?
«Mi piacerebbe, molto. Sarebbe bellissima».