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 2024  marzo 09 Sabato calendario

Su American Fiction

Occhio, che abbiamo il prologo – e il film-manifesto? – dell’anno. Università di Boston, il professor Thelonius Ellison, detto Monk (un superlativo Jeffrey Wright), illustra il programma del semestre, allorché una studentessa alza la mano ed esprime il proprio turbamento per quanto sta scritto sulla lavagna: The Artificial Nigger, titolo di un racconto di Flannery O’Connor. Monk recepisce ma non smobilita, spiegandole che è un corso di letteratura americana degli Stati del Sud e, ancorché sgradevole, il contesto va compreso e la storia non si può cambiare. La ragazza, bianca, non sente ragioni, conferma il proprio inconsolabile disagio per la N-word, sicché Monk, afroamericano, la rabbonisce: “Con tutto il rispetto, Brittany, se io ho superato la cosa, sono sicuro che anche tu possa riuscirci”.
Candidato a cinque Oscar (miglior film, Wright attore protagonista, Sterling K. Brown non protagonista, sceneggiatura non originale, colonna sonora), l’esordio alla regia del quarantaduenne Cord Jefferson American Fiction dà gran prova di intelligenza prendendo in giro cancel culture, ideologia woke, stereotipi di genere e altre occhiute amenità. Monk è il profeta di questa garbata e ironica guerra libertaria: docente illuminato, deve combattere contro la sensibilità o, meglio, suscettibilità culturale dei discenti; scrittore raffinato, deve lottare contro l’immancabile classificazione dei suoi libri nella sezione afroamericana. Noi spettatori ci beiamo della sua battaglia contro i mulini a vento, ma il meglio è da venire: dato che la sua ultima prova letteraria non trova un editore perché non è abbastanza “nera”, Monk in una sola notte si produce in un libro che più “nero” non si può e con quella prosa sciatta e farcita di luoghi comuni afroamericani a uso e consumo “bianco” trova sconfinato e inconsulto successo, e immancabile adattamento hollywoodiano.
A rincarare la dose meta-critica, l’autore del ribattezzato romanzo Fuck si nasconde dietro un artato pseudonimo e l’identità di fuorilegge ricercato, con gustose ricadute sul sistema socioculturale: American Fiction, dal libro Erasure di Percival Everett, fa lo shampoo alle buone pratiche e alla cattiva coscienza degli Stati Uniti, in cui giusto e sbagliato anziché categorie dello spirito o opzioni morali sono ormai mere sanzioni del politically correct.
A corredare la parabola artistica di Monk, le vicissitudini familiari, con fratello gay (Brown, uno spasso) e mamma (Tracee Ellis Ross) affetta da Alzheimer, e relazionali, con un nuovo e chissà se duraturo amore (Erika Alexander), American Fiction è un miracolo di scrittura, con Jefferson che intinge gentilmente nel fiele e danna le ipocrisie delle anime belle.
Lo trovate, con il leone della MGM a ruggire in esergo per conto Amazon, su Prime Video e dovreste vederlo, per comprendere come si possa ironicissimamente e spietatamente fustigare le pubbliche e democraticissime virtù del qui e ora. Ci vuole stile, è imprescindibile l’eleganza, e Jefferson, classe 1982 di Tucson, ne è ampiamente provvisto. Mai farsesco, sovente ilare, sempre leggiadro, rivendica finali ultimi, e una fiction ineluttabilmente vocata alla realtà. E, crediamo, devota alla verità.

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