Robinson, 8 marzo 2024
Intervista a Stenio Solinas
C’è una destra “triste solitaria y final” che alberga nel cuore di Stenio Solinas. Diversa da quella che proclama improbabili egemonie culturali, semmai ispirata dalla malinconia dei vinti e dalle “nobili sconfitte”, composta da individui che non sanno che farsene di ciò che la società chiede loro. Non cercano il potere, il successo, la visibilità. Sopportano la fatica e il dolore, nel rispetto per la parola data. Gente introvabile che somiglia ai protagonisti descritti da Arturo Pérez-Reverte e con i quali Solinas si ritrova, come fossero amici da sempre. Vado a trovare questo settantenne che sembra coltivare il disgusto per il proprio tempo. Credo che in questo sentimento risieda l’origine della sua tristezza. Ha scritto pregevoli libri, tra cui un bellissimo Compagni di solitudine («Fu Mario Spagnol a volerlo», mi dice) e di recente Supervagamondo (Settecolori), una sorta di autoritratto attraverso i libri letti e amati, i viaggi compiuti, le storie narrate. Si avverte in ciò che scrive il senso di resistenza e di attrito che ne fanno un personaggio controcorrente. Rare le apparizioni pubbliche. Scrittore e giornalista, Solinas è l’editor di Settecolori (il nome è un omaggio a Robert Brasillach), per la cui direzione alla fine dello scorso anno l’Académie Française lo ha insignito del “Prix du rayonnement de la langue et de la littérature française”.
Definirebbe la sua una casa editrice di destra?
«Non la collocherei in un’area precisa della politica. Pubblico scrittori dimenticati. Non c’è una strategia commerciale, semmai l’attenzione per romanzi letti da giovane e restati nella memoria. Il risultato paradossale è il crescente interesse dei lettori, della stampa e di quel che resta della critica letteraria».
Le piace l’inattualità?
«Mi considero un premoderno. Non vuol dire che preferisca la diligenza all’automobile, o il cavallo al motore a scoppio. È che mi sento inadeguato alle richieste che la società sollecita o esige. Vivo defilato, un po’ controtempo, con una predilezione per il primo Novecento, in particolare per gli anni Trenta. Quando per un attimo emerse un’idea di civiltà con cui tenere a bada la barbarie di massa».
Anni complicati, finiti nella morsa dei regimi illiberali.
«In quell’Europa dove si annunciava la catastrofe la sola cosa che si salvò fu lo stile e la coerenza di alcuni scrittori».
Quelli letti da giovane.
«Ma anche alcuni prima del XX secolo. Quando aprii Mémoires d’outre-tombe di Chateaubriand mi sembrò di avere a che fare con uno della mia generazione e della mia parte».
Cosa l’affascinava?
«Pur sapendo che il mondo al quale restò fedele era finito, continuava a difenderlo. Anche a costo di farlo con gente di cui avrebbe volentieri fatto a meno. Paradossalmente era in anticipo sul proprio tempo e quindi condannato ad avere torto anche quando aveva ragione».
Sarebbe stato a suo agio in quegli anni Trenta dello scorso secolo?
«Chissà. Ma se c’è un personaggio che sembra la reincarnazione di Chateaubriand quello è André Malraux. Ossessionato dalla politica, romanziere, saggista e ministro. Un uomo di potere, non dissimile in questo da Chateaubriand».
Quel romanticismo che lei sembra prediligere e riscontrare in certi uomini va poi calato nei compromessi della vita.
«Né Chateaubriand né Malraux sono scesi mai a compromessi. Si sono serviti della politica, questo sì, ma non facendosi sporcare dagli intrallazzi o dalla corruzione».
Lei ha provato a impegnarsi in politica. Dal resoconto dei suoi libri non sembra aver ottenuto risultati esaltanti.
«Per quindici anni mi sono interessato alla politica, soprattutto dal punto di vista delle idee».
In che periodo?
«Dalla seconda metà degli anni Sessanta fino alla fine degli anni Settanta».
Perché ha smesso?
«Era inutile che continuassi. E non tanto perché cultura e politica non sono destinate a incontrarsi. Quanto per l’ambiente asfittico, povero, perfino patetico, nel quale mi sono trovato a vivere».
Questo ambiente era la destra. Come c’è finito?
«Mi sono chiesto spesso che cosa abbia spinto un ragazzo di neppure vent’anni a condividere le sorti di una minoranza pasticciona e ridicola. Non avevo neppure un padre fascista».
Ne scrive definendolo il suo eroe.
«Era un militare di carriera e ne parlo con rispetto e ammirazione. Medaglia d’argento per la difesa di Roma, contro i tedeschi, a Porta San Paolo. Monarchico per disgusto della Repubblica. In famiglia poi c’era un nonno antifascista. Nulla dunque che giustifichi un’adesione per vincoli familiari o per un malinteso onore da difendere.La ragione di quella scelta era in ciò che vedevo e che non mi piaceva di quegli anni: il conformismo culturale».
Era un fenomeno giovanile cresciuto tra chi aveva molte domande e scarse risposte.
«Dubito che ci fossero così tante domande. Semmai molte certezze. Quanta presunzione dogmatica nel nome di Mao e Marx. Quanta noia in quel modo di vestire e di divertirsi; quanta delusione per i libri cosiddetti alternativi, il teatro necessariamente off, il cinema, rigorosamente d’essai. Non le sto dicendo che la destra fosse meglio, perché lì vedevo riflessa la parte peggiore del paese: una destra familistica, codina, forcaiola, nei suoi sentimenti più profondi. Che non definirei neanche reazionaria: una destra senza passato né futuro».
Da questo rigetto è nato “Per farla finita con la destra”, un pamphlet molto ironico e cattivo su cosa sia stata quella parte politica.
«Un libro contro i tanti tabù. Ma avrei scritto qualcosa di altrettanto sprezzante se avessi militato dall’altra parte».
Però non ho ancora capito la sua scelta.
«Proprio in quel pamphlet l’ho spiegata coniando l’espressione “la sindrome di Fabrizio del Dongo”, l’eroe divinamente imbecille della Certosa di Parma di Stendhal. Come Fabrizio, anch’io mi sentivo un disadattato, un diverso, un vinto, mio e suo malgrado. La verità è che non c’era nulla nei gusti e nelle preferenze dei miei coetanei che avrei potuto condividere».
Ma era un momento di grandi fermenti culturali.
«Non me ne fregava niente della controcultura arrivata dall’America, delle illeggibili neoavanguardie letterarie, dello strutturalismo, del cinema falsamente impegnato, dell’arroganza di massa, della volgarità della gente. Sentivo di essere nato in un tempo che non era il mio. Si parlava dei tragici anni Trenta. Forse, lo ripeto, il solo periodo in cui ci sarebbe stato posto per me, quando ancora era possibile vivere senza che la modernità si fosse tramutata in incubo e dove lo strapotere del numero non aveva ancora vinto sulle possibilità del singolo».
Guardi che sono proprio i totalitarismi di quel periodo a trasformare la modernità in incubo e a servirsi dello strapotere del numero attraverso l’inquadramento delle masse.«È vero, nel Novecento le masse fanno irruzione nella politica e i totalitarismi cercano di irreggimentarle. È chiaro che non è in quelle esperienze che va cercata una risposta positiva».
Dove allora, se anche la democrazia di massa non le sta bene?
«Quell’epoca lì, vista retrospettivamente, mi è sembrata come un momento in cui ci si potesse illudere che le individualità avessero un senso e ragionevolmente cercare una via di uscita. Sapendo come sono andate le cose è facile parlare di fallimento».
Su quella linea del fallimento si collocano scrittori che lei predilige come Brasillach e Drieu La Rochelle. Talenti letterari compromessi con i regimi fascista e nazista. Il primo verrà fucilato, il secondo si suiciderà.
«Le loro morti trovarono il cordoglio e perfino l’indignazione di molti scrittori e intellettuali francesi. Firmarono contro la condanna a morte di Brasillach, tra gli altri, Paul Valéry, Jean Cocteau, Colette, François Mauriac, Albert Camus. André Malraux, che aveva condiviso amicizia e interessi con Drieu, diventerà il suo esecutore testamentario. Non mi limito perciò a sottolineare gli errori politici che oggi è facile criticare, ma provo a immergermi nella loro difficoltà ad accettare il proprio tempo. È esattamente la stessa cosa che accade con Hemingway, che va in controtendenza non credendo minimamente alla bontà dell’essere umano o al mito del progresso. È un discorso di destra? La risposta è più complessa».
Molti degli autori che lei legge e ama sono tuttavia collocati a destra.
«Ridotti a una categoria della politica capiremmo poco del loro stare al mondo. Céline è di destra o è qualcosa di maledettamente più complesso? Se volevo capire come fossero andate le cose in Italia mi tuffavo nei libri di Prezzolini, Malaparte, Longanesi o magari Flaiano. Ma quel primo Novecento italiano è stato ridicolizzato e censurato dal conformismo ideologico degli anni Sessanta».
So che lei si è laureato su Prezzolini.
«Chiesi la tesi a Giuliano Manacorda. Mi rispose: “Le sembra il caso dopo i tanti danni che ha provocato? Perché non mi fa una bella tesi su Rocco Scotellaro?”. Vista l’insistenza accettò a malincuore la mia proposta: “Se proprio vuole farsi del male da solo…”, fece cadere quella frase nel vuoto. Non riuscii neanche a discutere la tesi. Mi fu dato un voto basso. Mentre fuori dall’aula dell’università di Roma, con la polizia che piantonava, un corteo di studenti inveiva contro di me».
Cosa la spingeva a occuparsi di Prezzolini e non, per esempio, di Marcuse?
«Solo a un disadattato poteva venire in mente di appassionarsi a uno scrittore i cui libri non si pubblicavano da anni e sfidare il pensiero dominante.Volevo andare oltre il reciproco pregiudizio ideologico».
Lei ha militato nelle organizzazioni giovanili del Movimento sociale. Che cosa pensava di ottenere?
«Ci sono entrato un po’ per caso, curiosità, forse perché oltre ai libri mi interessavano le persone. Alla fine ho trovato solo un mondo abitato prevalentemente da mostri».
Mostri?
«Diciamo meglio, la visione che il neofascismo degli anni Sessanta e Settanta ha offerto di sé era pessimo folclore, funzionale a un partito – il Movimento sociale – che non aveva nessun progetto politico in testa, e si limitava a ribadire il vecchio repertorio dei saluti romani, delle rivendicazioni squadriste, della nostalgia per i casini e per il “credere obbedire combattere”. Rituali da scadente operetta».
In quel contesto forse il vero mostro era lei. Perché vi è rimasto così a lungo?
«Probabilmente a vent’anni si hanno delle illusioni che a cinquanta non hai più. Una delle poche cose in cui ho creduto è stata la “nuova destra” e i contributi di Alain de Benoist. Con l’amico Marco Tarchi ne abbiamo discusso, lui provando a declinarla politicamente; io, in senso lato, più sul versante letterario. C’era la speranza e la voglia di cambiare le carte in tavola, prendere le distanze da quel museo degli orrori e delle meraviglie rappresentato dalla vecchia destra. Poi è andata come è andata. La vita è fatta di situazioni inaspettate, di incontri imprevedibili. Ma anche di cecità e illusione. La verità è che eravamo dei fantasmi».
Cosa pensa di questa destra oggi al potere?
«Non c’è niente che mi lega ad essa».
Neanche Tolkien e Prezzolini, entrambi tornati in auge?
«Ben venga Prezzolini che è stato uno dei rari tentativi di un conservatorismo serio nel nostro Paese, che però non ha mai attecchito. Quanto a Tolkien, che dire? Non mi ha mai convinto, oltretutto non amo il fantasy. Però capisco perché la sua lettura sedusse la destra degli anni Settanta. E dopotutto un “campo Hobbit” era pur sempre un passo avanti rispetto a un “campo Dux”».