la Repubblica, 8 marzo 2024
Leroy Mokgatle
Dimenticate i Trockadero, anzi i Trocks, come li chiamano gli aficionados. Sono stati loro a lanciare l’idea di interpreti maschili, a volte pure pelosi e corpulenti, che svolazzavano in tutù e sulle punte dando vita a cignetti, silfidi e fatine. Da tempo i Trocks giocano la carta della parodia del balletto romantico presentando maschi che enfatizzano in chiave comica i ruoli femminili. Ma il travestitismo nella danza, come nella vita, non è più qualcosa di destinato a far ridere. Oggi il tema del gender ha un tale numero di declinazioni e sfumature che anche solo nel parlarne vanno usate cura e attenzione, se non si vogliono rischiare scivolate che neghino l’inclusività nel campo LGBTQ.
Prendiamo il caso di Leroy Mokgatle, splendida 24enne sudafricana che nacque maschio. Oggi è una star sinuosa e delicatamente muscolosa che si definisce “non-binary” e che sta compiendo una transizione verso una femminilità che ha già sposato sul versante artistico e personale. Rifiuta lo schema maschile-femminile e danza sempre con le scarpette con punte rigide e graziosamente innalzanti, che nel balletto sono un accessorio esclusivo delle donne. Nella compagnia in cui lavora, quella dell’Opera di Berlino diretta da Christian Spuck, interpreta solo parti femminili, anche all’interno del repertorio più tradizionale. Di recente è stata una delle fate nellaBella Addormentata. Tra pochi giorni Leroy giunge in Italia per esibirsi nella kermesse di “Les Étoiles”, gran parata di stelle della danza organizzata dal producer Daniele Cipriani a Roma, nella Sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica, il 15, 16 e 17 marzo. Ora Leroy è a Berlino, da cui rilascia quest’intervista realizzata via Whatsapp con telecamera accesa. Ammaliano la dolcezza lucente del suo sorriso e il suo tono soft. Alla domanda se nella vita privata è single,risponde birichina: «Purtroppo sì».
Poi scherziamo sull’augurio che Roma possa regalarle un fidanzato e lei esclama: «Magari!».
Leroy, com’è iniziato il suo rapporto con la danza?
«Verso i sette anni scelsi il balletto come attività da fare dopo la scuola perché mi affascinava l’idea di muovermi sulla musica.
Sono figlia di genitori musicalissimi, che cantavano nel coro della nostra chiesa.
Passato un anno, mi hanno ammesso nella scuola di ballo del teatro pubblico di Pretoria, in Sudafrica, e fin da ragazzina ho vinto premi nei massimi concorsi internazionali: la mia strada era segnata».
Lei adesso usa per sé i pronomi she/her. È stata una scelta precoce?
«In principio mi facevano interpretare personaggi maschili e io non trovavo alcun nesso coi ruoli.
Mi dicevano: devi essere virile! Danza come un ragazzo! Eppure non c’era nessun ragazzo dentro di me.
Impossibile scovarlo. Un giorno Gil Roman, direttore del Béjart Ballet a Losanna, ensemble in cui ho lavorato dal 2019 al 2022, mi vide mentre mi allenavo con le punte da ballerina e volle farmi danzare un assolo femminile. Lì ho capito che era quello l’unico modo per non tradire il mio sentirmi non binary».
Più che non binary, la sua opzione del she/her è femminile.
“A dire il vero sarei un they/them: termine più giusto, in quanto rigetta l’appartenenza a un genere. Ma è una forma complicata da usare nella lingua comune, mentre she/her è semplice e comoda.
Inoltre si addice alla mia realtà oggettivadi artista che ormai danza solo caratteri femminili, sia nel moderno chenel classico».
Ha subìtodiscriminazioni o giudiziirrispettosi?
«Non mi è mai successo di avere problemi coi coreografi giovani, mentre i più vecchi sono tradizionalisti e a volte tocca discutere e trovare punti d’incontro. Quanto alle discriminazioni, mi è capitato di ricevere commenti strani, ma non mi tangono… Sono troppo a mio agio con me stessa per farmi mettere in crisi».
Pensa di aver inaugurato una tendenza che invaderà la danza?
«Esistono ballerini non binari soprattutto negli Usa, ma sono operativi nella danza moderna e contemporanea. Nessuno di loro lavora in una compagnia pubblica, istituzionale, che esegue il repertorio, come lo è la mia di Berlino.
Suppongo di essere un caso unico e non so se ho inaugurato una tendenza, ma certo il pubblico deve aprirsi a soluzioni nuove, meno nette di prima nella distinzione dei generi. Qui a Berlino lo fa».
Cos’è per lei la bellezza?
«Qualcosa di sottile e vibrante nel movimento. Qualcosa che cattura per sensualità e spessore. Essere belli significa anche avere fiducia nel partner con cui si balla, come nel pezzo che porto a Roma, Nocturne, musica di Chopin e coreografia di Christian Spuck. Danza con me Alessandro Frola, primo ballerino della compagnia di Amburgo. Proponiamo un duetto lirico e plastico, che pur essendo astratto trasmette un mare di emozioni. Io vivo interamente dentro le emozioni».