la Repubblica, 8 marzo 2024
Il dilemma di Israele resistere nella fortezza o aprirsi alla pace
Tanto più ci allontaniamo dagli eventi di sabato mattina 7 ottobre, quanto più il loro significato si chiarisce e il trauma che hanno provocato si aggrava. Noi israeliani non facciamo che raccontarci quegli eventi, divenuti parte formativa della nostra identità e del nostro destino. Ci raccontiamo come i terroristi di Hamas hanno invaso le case di israeliani innocenti per ore, ucciso più di 1.200 persone, violentato, rapito, saccheggiato e bruciato. Durante quelle ore da incubo, prima che l’Idf si riprendesse dallo shock, gli israeliani hanno toccato con mano cosa potrebbe accadere se il loro Paese non solo subisse un duro colpo, ma cessasse di esistere a tutti gli effetti. Se Israele venisse cancellato.
Ebrei che non vivono qui, con i quali ho parlato, mi hanno rivelato di essersi sentiti fisicamente e spiritualmente più vulnerabili in quelle ore. Di più: qualcosa della loro forza vitale è andato perso per sempre.
Troppo lentamente l’esercito israeliano si è ripreso e ha iniziato a reagire. Quando la nazione era ancora immersa nel sangue, la società civile già si mobilitava per le operazioni di salvataggio e di organizzazione, e insieme a centinaia di migliaia di cittadini comuni, faceva ciò che il governo avrebbe dovuto fare se non fosse caduto in uno stato di paralisi e di inefficienza.
Nel momento in cui scrivo (fine febbraio 2024), secondo i dati del Ministero della Sanità di Gaza controllato da Hamas, sono circa trentamila i palestinesi uccisi, tra cui molti bambini e civili non appartenenti all’organizzazione. “Non coinvolti”, li definisce Israele nel gergo linguistico con cui nazioni in guerra ingannano sé stesse per non affrontare le conseguenze dei loro atti.
Il famoso studioso di Kabbalah Gershom Scholem una volta coniò il detto: «Tutto il sangue scorre verso la ferita». E a quasi cinque mesi dal massacro, l’angoscia, lo shock, la rabbia, il dolore, l’umiliazione, la sete di vendetta, le energie mentali di un’intera nazione ancora confluiscono lì, verso la ferita, verso l’abisso in cui stiamo tuttora cadendo.
Il pensiero dei bambini uccisi, delle famiglie bruciate vive, delle ragazze, delle donne e degli uomini violentati dagli aggressori di Gaza (assassini che hanno filmato i loro crimini trasmettendoli in diretta alle famiglie delle vittime) non ci dà tregua.
E non ci dà tregua nemmeno il pensiero degli ostaggi. Di quegli israeliani rinchiusi in tunnel, forse in gabbie di ferro. Bambini e anziani, donne e uomini, alcuni malati e morenti per mancanza di ossigeno e medicinali. O per mancanza di speranza. Oppure morenti perché persone normali, quando vengono a contatto con il male assoluto, diabolico, spesso perdono la loro naturale voglia di vivere in un mondo in cui sono possibili simili cattiverie e crudeltà. In cui vivono persone come i terroristi di Hamas.
L’enormità degli eventi del 7 ottobre cancella a tratti il ricordo di ciò che è accaduto nel periodo che li ha preceduti. Già nove mesi prima del massacro nella società israeliana avevano cominciato a manifestarsi crepe allarmanti. Il governo, guidato da Benjamin Netanyahu, aveva tentato di imporre una serie di misure legislative intese a indebolire gravemente l’autorità della Corte Suprema, assestando così un colpo letale al carattere democratico di Israele. Centinaia di migliaia di cittadini erano scesi in piazza per protestare contro il piano del governo. La destra israeliana aveva sostenuto l’esecutivo e le posizioni politiche della popolazione si erano fatte sempre più estremiste. Il legittimo confronto ideologico del passato tra destra e sinistra si era trasformato in espressioni di odio reciproco tra diverse “tribù”. Il dibattito pubblico si era fatto violento e astioso. Avevano cominciato a circolare ipotesi su una possibile divisione del Paese in due nazioni diverse: Giuda e Israele. E l’opinione pubblica israeliana aveva sentito per la prima volta che l’esistenza stessa del Paese veniva improvvisamente messa in dubbio, che le sue fondamenta rischiavano di crollare.
A chi vive in nazioni in cui il concetto di “casa” è dato per scontato, dovrei spiegare che per me, dal mio punto di vista di israeliano,questa parola – “casa” – trasmette una sensazione di sicurezza, di protezione e di appartenenza. “Casa” è un luogo in cui mi sento a mio agio e i cui confini sono riconosciuti da tutti, in particolar modo dai miei vicini. Questa sensazione però è velata da una patina di nostalgia, di desiderio di qualcosa che non ho ancora pienamente raggiunto. Al momento temo che Israele sia più una fortezza che una casa. Non offre né sicurezza né agio e i miei vicini avanzano obiezioni e pretese sulle sue stanze e sulle sue mura, e talvolta sulla sua stessa esistenza.
In quel terribile “sabato nero” non solo abbiamo scoperto che Israele è ancora lontano dall’essere una casa nel vero senso della parola, ma non sa nemmeno essere una fortezza.
Gli israeliani sono però giustamente orgogliosi della rapidità e dell’efficienza con cui si sono mobilitati e della solidarietà che sanno dimostrare quando il Paese si trova in pericolo. Un pericolo che può essere rappresentato da una pandemia di Covid-19 come da una guerra. Molti riservisti sparsi per il mondo si sono imbarcati su un aereo per unirsi ai loro commilitoni già impegnati nei combattimenti. Sono tornati per “difendere la casa”, come spiegavano nelle interviste. C’era un che di commovente in tutto questo, di unico: giovani uomini e donne che arrivavano da ogni angolo del globo per difendere i loro genitori e i loro nonni. Pronti a sacrificare la vita. E altrettanto commovente era lo spirito di unità che si respirava nelle tende dei soldati. Le opinioni politiche non contavano, regnavano solo solidarietà e cameratismo.
Ma gli israeliani della mia generazione, veterani di numerose guerre, già si domandano, come sempre dopo un conflitto, come mai questo spirito di unità emerga soltanto in situazioni di emergenza e di pericolo. Perché solamente rischi e minacce ci rendano coesi, tirino fuori il meglio di noi, ci liberino dalla nostra strana attrazione verso l’autodistruzione. Verso la distruzione della nostra stessa casa.
E allora si fa strada in noi una dolorosa intuizione: forse la profonda disperazione che la maggior parte degli israeliani avverte dopo il massacro deriva dalla “condizione ebraica” nella quale ci ritroviamo catapultati ancora una volta. La condizione di un popolo perseguitato e senza difese. Un popolo che, nonostante i suoi grandi successi in molti campi, nel profondo del suo essere è ancora una nazione di profughi che teme di essere sradicata dalla propria patria anche dopo quasi 76 anni di esistenza sovrana.
Oggi è più chiaro che mai fino a che punto dovremo vigilare su questa casa penetrabile e fragile. E quanto profondo e radicato è l’odio di molti nei suoi confronti.
E viene da pensare un’altra cosa: che nonostante tutto, israeliani e palestinesi, due popoli tormentati per i quali il trauma dell’esilio è significativo e primordiale, non hanno un briciolo di comprensione, né tantomeno di compassione, l’uno per la tragedia dell’altro.
In seguito alla guerra è emerso un altro fenomeno vergognoso: Israele è l’unico Paese al mondo del quale è consentito, e legittimo, chiedere l’eliminazione.
In cortei di centinaia di migliaia di manifestanti, nei campus delle università più prestigiose, sui giornali a più alta tiratura, sui social media e nelle moschee di tutto il mondo, in diversi contesti è echeggiato il grido: “Morte a Israele”. È vero, si grida anche “Morte all’America”, ma quando si tratta del piccolo Israele le grida, in qualche modo, risuonano molto più reali e concrete.
Nel caso dello Stato ebraico una critica politica ragionevole che tenga conto della complessità della situazione si trasforma in un urlo di odio che solo la distruzione di questo stato potrebbe placare (e nemmeno questo è ormai certo). Quando Saddam Hussein uccise migliaia di curdi con armi chimiche, non si udirono richieste di sterminio, non ci furono appelli a distruggere l’Iraq, a cancellarlo dalla faccia della terra. Solo quando si tratta di Israele è lecito chiederne l’eliminazione.
I manifestanti, gli editorialisti, i leader pubblici dovrebbero chiedersi cosa suscita in loro questo odio. Perché Israele, tra i 195 Paesi del pianeta, è l’unico la cui esistenza è sempre “condizionata a…”, come se questa dipendesse dalla buona volontà (?) di altri Paesi.
È agghiacciante pensare chequesto odio omicida sia rivolto esclusivamente verso un popolo che non molti anni fa fu quasi sterminato. Anche il legame contorto e cinico tra l’ansia esistenziale ebraica e il desiderio di molte nazioni e religioni che Israele cessi di esistere suscita indignazione. Ed è pure intollerabile l’ostinata determinazione con cui taluni cercano di inserire il conflitto israelo-palestinese in un quadro colonialista, dimenticando che gli ebrei non hanno un altro Paese (condizione essenziale per la definizione di uno stato coloniale), che non sono occupanti stranieri ma che il loro intenso attaccamento alla Terra di Israele dura da quasi quattromila anni. È qui infatti che si sono formati come popolo, come religione, come cultura e come lingua.
Possiamo immaginare con quanta gioia maligna certi elementi calpestino il punto più vulnerabile e fragile del popolo ebraico, il suo senso di estraneità tra i popoli, la sua solitudine esistenziale. Quel punto dal quale gli ebrei non trovano rifugio, che spesso li condanna a commettere i loro errori più fatali e distruttivi, sia per i loro nemici che per loro stessi.
Chi saremo noi israeliani e palestinesi quando questa lunga e crudele guerra sarà finita? Non solo il ricordo delle atrocità che ci siamo reciprocamente inflitti resterà con noi per molti anni, ma, come è chiaro a tutti, non appena Hamas ne avrà l’opportunità, si affretterà a realizzare l’obiettivo apertamente dichiarato nel suo statuto originale, vale a dire il dovere religioso di distruggere Israele.
Come possiamo, allora, firmare un trattato di pace con un simile nemico? Abbiamo qualche altra scelta? I palestinesi faranno il loro esame di coscienza. Io, come israeliano mi chiedo che popolo saremo quando la guerra sarà terminata. Come gestiremo il nostro senso di colpa (se saremo poi tanto coraggiosi da provarne uno) per ciò che abbiamo fatto a palestinesi innocenti. Alle migliaia di bambini che abbiamo ucciso. Alle famiglie che abbiamo distrutto.
Come impareremo a vivere una vita sul filo del rasoio per non essere mai più sorpresi? E chi mai vorrebbe vivere e crescere i propri figli sul filo del rasoio? E quale sarà il prezzo di una vita di continua allerta, di sospetto, di costante paura? Chi di noi deciderà di non volere – o di non potere – condurre un’esistenza da eterno soldato, da spartano? E chi resterà in Israele? Forse i più estremisti, i fanatici religiosi, i nazionalisti, i razzisti. Saremo condannati a guardare, paralizzati, l’israelianità audace, creativa e unica nel suo genere, venire gradualmente assorbita dalla tragica ferita del giudaismo?
Queste domande probabilmente accompagneranno Israele per anni. Esiste, tuttavia, la possibilità che emerga una realtà radicalmente diversa. Non è infatti da escludere che la consapevolezza di non poter vincere questa guerra, e d’altro canto, di non poter continuare l’occupazione indefinitamente, costringerà le parti ad accettare la soluzione dei due Stati, Israele e Palestina. Una soluzione che, nonostante gli inconvenienti e i rischi (primo fra tutti, che Hamas assuma il controllo di tutta la Palestina in seguito a elezioni democratiche), è forse ancora l’unica fattibile.
Questo è anche il momento in cui quegli Stati che possono esercitare un’influenza sulle parti, facciano ciò che è in loro potere. Non c’è spazio per politiche meschine, né per diplomazie ciniche. Questo è un raro momento in cui uno shock come quello vissuto lo scorso 7 ottobre può cambiare la realtà. I Paesi interessati e coinvolti nel conflitto non vedono che israeliani e palestinesi non sono ancora una volta in grado di salvarsi da soli?
I prossimi mesi saranno determinanti per il destino dei due popoli. Scopriremo se il conflitto che va avanti da oltre centocinquant’anni è pronto a giungere a una soluzione ragionevole, etica e umana. È un peccato che questo avvenga – se poi avverrà – non in un clima di speranza e di entusiasmo ma di stanchezza e di disperazione. D’altronde questo è lo stato d’animo che spesso porta i nemici a riconciliarsi, e oggi è tutto ciò in cui possiamo sperare. Ci accontenteremo. Probabilmente dovevamo attraversare l’inferno per arrivare a un punto dal quale si può vedere, in una giornata particolarmente limpida, il limite estremo del paradiso.— Traduzione di Alessandra Shomroni