Corriere della Sera, 8 marzo 2024
Intervista a Evaristo Beccalossi
Evaristo Beccalossi, ma davvero dopo che un gatto nero le attraversò la strada a Campitello Matese, lei fermò l’auto e aspettò un’ora che ne passasse un’altra?
«Ero in anticipo e sono rimasto lì a fumare e a guardare il panorama. Dopo un’ora è arrivata un’Ape e sono potuto ripartire. È un classico esempio del mio non-ragionare».
Lei ha sempre detto che il suo primo idolo è stato Sivori, suo papà era juventino: se facciamo due più due...
«Non ci provi: mai stato juventino. Però Omar è stato il primo che ho cercato di imitare: sono un destro naturale e mi allenavo per ore con il sinistro, per diventare come lui. Ci marcio ancora oggi».
Con chi?
«Coi ragazzi dell’Under 19 dell’Italia, che mi chiedono se ero destro o sinistro. E io godo perché li incuriosisco, vanno a vedere come giocavo e quello che facevo. Con tutti e due i piedi».
Che ruolo ha coi giovani?
«Do loro dei consigli e avendo provato tutto vado in scioltezza. I ragazzi hanno bisogno di persone credibili, ricevono mille informazioni, ma questo aggeggio qua (indica il cervello, ndr) fa sempre la differenza: devono giocare più liberi nella testa».
Suo padre che padre era?
«Operaio specializzato, lo portavo sempre in giro, ma non parlava mai. Poi quando ho segnato il mio primo gol alla Juve me lo sono trovato fuori dallo stadio: “Ma proprio te dovevi fare gol?”».
Il nome da dove arriva?
«L’ho ereditato da un nonno. Quando sono arrivato a Milano avevo il complesso del nome strano e del cognome lungo. In mezzo ai monumenti mi dicevo “ma dove vado?”. Però Corso, Suarez, Mazzola mi hanno adottato».
In amichevole fece in tempo a sostituire Mazzola.
«Non ci eravamo lasciati bene, ma di recente l’ho ringraziato per avermi portato all’Inter: mi sono tirato via le negatività e sentito meglio».
Era una sua specialità?
«Sì, ancora oggi mi butto nei progetti, ho fiducia nel futuro e nei giovani che devono sfruttare le opportunità. Io sono partito dal paesello, pensavo di tornarci ma dopo quarant’anni sono ancora qua a Milano e lasciato il calcio ho lavorato quindici anni alla Sony. Questa città mi ha aperto il carattere, mi dà gioia».
La sua prima Milano?
«Era quella del Derby, inteso come il locale, quella di Gaber, Jannacci, Paolo Rossi e poi Beppe Viola: gli dicevo di parlarmi lentamente, io avevo la terza media».
«È meglio giocare con una sedia che con Hansi Müller» lo ha detto davvero?
«Sì. Poco tempo fa lui mi ha telefonato: “Sono il tuo cucumer”, mi ha detto, perché lo chiamavo così. Grande personaggio, ma non tutto funzionava in campo. Però andavamo d’accordo: era un bel ragazzo e sfruttavo la sua scia».
Ricorda ancora il primo incontro con Altobelli?
«Come no? Terrificante. Era vestito da figlio dei fiori. Ma poi è stato troppo bello: vivevamo in simbiosi, mai provato uno schema, eppure ci studiavano per capire i nostri scambi».
È vero che Bersellini la tenne in ritiro, da solo?
«Io, lui e il preparatore. Uscivo in cerca di cibo, oliavo la porta della cucina, perché non cigolasse. Ma una sera mi ritrovo una torcia e una pistola puntate addosso: era il custode, ma che spavento».
Le multe fioccavano?
«Sì, ma almeno per un paio ne valeva la pena. Ho detto che avevo un dolorino e sono andato a Monza per conoscere il mio idolo Villeneuve, sono entrato nella sua Ferrari, ho pranzato con lui. I motori erano la mia passione, ho anche incontrato Enzo Ferrari: accanto a questo omone con gli occhiali scuri e un alone di carisma c’ero io, coi capelli alla Cocciante/Branduardi. Mi vengono ancora i brividi».
E l’altra multa?
«Ero al Giro d’Italia nell’ammiraglia che seguiva il mio amico Visentini: pioveva e dovevo controllare i numeri dei corridori, che li nascondevano».
Come convinse Radice a far allenare con l’Inter il suo amico Enrico Ruggeri?
«Pura incoscienza. Come quando ho firmato il primo contratto in bianco con l’Inter, vedi mai che ci ripensassero. Comunque Ruggeri se la cavò, segnò pure un gol: ancora oggi vuole sapere se lo abbiamo lasciato fare o no. La verità? Non me lo ricordo».
Ha rimpianti?
«No, anzi. Mi dicevano sei il più forte di tutti, fai vita sana, conservati. Ma per me era tutto bello: battere la Juve, sfidare grandi campioni, andare dal salumiere interista dopo il derby per farmi dare il prosciutto buono, il benzinaio milanista da sfottere».
Anche dai famosi due rigori sbagliati con lo Slovan ricavò qualcosa di bello, grazie a Paolo Rossi, l’attore.
«Pensi che avevo paura di perdere l’affetto dei tifosi, che con me erano speciali, invece sono tornato a San Siro dopo 15 giorni e mi hanno accolto come se non fosse successo niente. Indimenticabile».
Lei coccolava il pallone come diceva l’avvocato Prisco?
«Sì, ma i compagni spesso sacramentavano perché non correvo: io preferivo i leader silenziosi come Oriali. Comunque nelle difficoltà mi esaltavo, ho fatto fuori due psicologhe prima di capirlo: a Genova era tutto perfetto e per questo non rendevo».
Ha visto nascere la coppia Vialli-Mancini. Com’erano?
«Con Luca ho vissuto un anno a Bogliasco, poi non ci siamo mai persi di vista e ci siamo ritrovati in azzurro. Mi manca molto, ma i messaggi che ci scambiavamo preferisco tenerli per me. Mancio era già carismatico, ma meno sgamato e più simile a me: io tenevo i capelli lunghi per timidezza, quasi un modo per nascondermi».
Una fragilità da artista: fu anche quello il punto di incontro con Califano?
«Quando ci siamo conosciuti mi disse che aveva le mie foto in carcere. Veniva a trovarmi a Brescia e voleva sempre tirare mattino, ma l’unico locale aperto era l’autogrill di Dalmine, quello sopraelevato: guardavamo le macchine che passavano fino all’alba».
E i momenti di festa?
«Ogni volta, anche a distanza di pochi giorni, mi presentava una fidanzata diversa e mi diceva “Becca questa è quella giusta”. Ho saputo della sua morte da Edoardo Vianello: il Califfo aveva lasciato un biglietto in cui diceva di avvertirmi».
È stato in Cina per la Figc e agli ultimi due Mondiali con la Fifa. Cosa le manca?
«Il sogno sarebbe fare qualcosa alla casa madre: l’Inter».