Robinson, 2 marzo 2024
Intervista con i figli di Garcia Marquez sul suo romanzo postumo
«Gabo ci chiese di distruggere questo libro, diceva che era inutile, non aveva senso, semplicemente non funzionava. Non lo abbiamo ascoltato, ma neanche contraddetto:ç se per lui era brutto, per noi era ovvio che avesse ragione. Ci siamo limitati a metterlo da parte nella speranza che il tempo decidesse cosa farne. Anni dopo, rileggendolo, abbiamo scoperto che, nonostante alcuni difetti, aveva molti pregi e c’è venuta in mente un’altra probabilità, che il progressivo deterioramento delle facoltà mentali gli avesse impedito di rendersi conto del reale valore». Rodrigo e Gonzalo García Barcha Gabriel hanno deciso di anteporre alla volontà del padre Gabriel García Márquez il piacere dei suoi lettori e quindi, a dieci anni dalla morte, ne svelano l’ultimo segreto: Ci vediamo in agosto, romanzo breve che il Nobel colombiano iniziò nel 1999, accantonò più volte e infine riprese quando, già afflitto dalla perdita della memoria, sfidava le sue condizioni di salute facendo quello che più amava: scrivere.
Alla vigilia della pubblicazione (uscirà in contemporanea mondiale il 6 marzo, giorno di nascita del Nobel colombiano, in Italia per Mondadori nella traduzione di Bruno Arpaia) si collegano via Zoom per spiegare le ragioni del loro “tradimento” i due figli di Gabo. Rodrigo è a Los Angele, la città in cui vive e ha costruito la sua brillante carriera di regista. Gonzalo a Città del Messico, nella casa che fu dei genitori, alle spalle una parete di libri. Sono entrambi cratori di storie – il primo con il linguaggio del cinema, il secondo attraverso l’arte e la grafica – ma sono soprattutto gli ultimi membri del “club dei quattro”, come si è sempre definita la famiglia Márquez-Barcha. Dall’altra parte dell’oceano, lontanissimi dalla Spagna dove vissero bambini e dall’Italia che attraversarono ben due volte sulla scia della curiosità di Gabo, parlano di quest’opera che doveva concludere il ciclo iniziato nel 1985 con L’amore al tempo del colera e proseguito nel 1992 con Dell’amore e di altri demoni. Una storia che García Márquez aveva anticipato ai suoi lettori già nel 1999 leggendo il primo capitolo alla Casa de Amnérica di Madrid, dove partecipava con José Saramago a un forum sulla forza della creazione ispanoamericana. In quel momento il progetto narrativo era quello di un libro che trattava storie d’amore di persone mature.
Le cose non sono andate come aveva immaginato: anzitutto perché altre opere lo “distrassero”; poi perché la sua memoria non gli permise più di incastrare tutti i pezzi e di districarsi tra le diverse versioni a cui aveva lavorato. A mettere ordine nelle carte, grazie agli appunti presi dalla sua assistente Mónica Alonso, è stato Cristobal Pera, già suo editor per l’edizione finale di Vivere per raccontarla e del saggio Non sono venuto a far discorsi. Lavorando come un restauratore, controllando ogni annotazione, nota a margine, parola o frase cambiata, Pera ci ha consegnato la storia di Anna Magdalena Bach, una donna di quasi cinquant’anni che ogni 16 agosto raggiunge l’isola dei Caraibi dove è sepolta sua madre e per una notte, dimenticando la sua vita matrimoniale, in realtà soddisfacente, si trasforma in un’altra persona ed esplora la propria sensualità. Aveva ragione Gabo a voler distruggere il manoscritto? «L’ultima parola spetta ai lettori», dicono i figli, «ma se loro apprezzeranno è possibile che Gabo ci perdonerà».
Voi che pregi gli riconoscete?
Gonzalo: «La capacità d’invenzione, la poesia del linguaggio, la sua comprensione dell’essere umano e la tenerezza nei confronti delle sue vicende e delle sue sventure, soprattutto nell’amore».
Rodrigo: «Funziona come completamento degli altri due romanzi perché è diverso, più contemporaneo, a suo modo femminista. E d’altronde, tutte le versioni del libro erano finite all’Harry Ramsom Center dell’università del Texas a Austin, scannerizzate ed esposte. Dopo che il centro ha aperto al pubblico, abbiamo pensato: “Beh, adesso ci sono persone che leggono questi testi e quindi non ha più senso tenerli in un cassetto”. Pubblicarlo è anche un modo di proteggere il lavoro di Gabo dalla possibilità che trapeli in maniera errata, attraverso copie pirata che non tengano conto delle variazioni e delle correzioni che ha continuato ad apportare anche dopo che la malattia si era manifestata, fin quando gli è stato possibiloe sedersi di fronte al computer o dettare appunti alla sua assistente».
L’editore italiano presenta Ci vediamo ad agosto come un inno alla libertà e una riflessione sul mistero dell’amore e del desiderio.
Gonzalo: «L’amore è un tema che attraversa tutti i suoi romanzi, ma qui siamo di fronte a qualcosa di diverso. C’è il desiderio di una donna non più giovane, la sua voglia di vivere e amare, di essere un’altra persona rispetto a quella che tutti conoscono».
Il romanzo parla anche di rimpianti. Gabo ne aveva?
Rodrigo: «Immagino che ogni persona abbia dei segreti, ma i rimpianti sono un’altra cosa. Qualche volta diceva che avrebbe dovuto studiare architettura, ma non sembrava realmente dispiaciuto, era più qualcosa che affermava per divertimento».
Gonzalo: «Penso che non si sia pentito di nulla. Certo, alla fine della sua vita, non ricordando nulla, non aveva nulla di cui pentirsi, ma anche prima non ha mai espresso alcun rimpianto o rimorso. Quando la malattia è cominciata, aveva un’età nella quale era normale dimenticare i nomi o ripetere le cose. Non ce ne siamo resi conto fino a quando i sintomi non sono diventati allarmanti e lui ha iniziato a fare la stessa domanda per cinque volte di seguito. Poi è cominciata la fase più difficile: noi cercavamo di proteggerlo perché era una persona pubblica e bisognava stare attenti che non dicesse cose avventate, lui era consapevole di quello che stava accadendo. Una volta ci disse: “La memoria è allo stesso tempo la mia materia prima e il mio strumento. Senza di lei, non c’è nulla”. Poi iniziò a dimenticare che stava dimenticando e divenne quello che potremmo definire un malato di Alzheimer piuttosto docile».
Gonzalo: «Anche nell’anno peggiore, quando era consapevole e spaventato, ha cercato di avere un atteggiamento positivo, soprattutto con noi. L’angoscia la teneva per sé o la condivideva con un gruppo di persone molto ristretto».
Parlavate mai della morte?
Rodrigo: «Con me una sola volta ha fatto un’allusione alla fine della vita. Aveva compiuto ottant’anni, disse che era arrivato a un’età da vertigine, in cui si guarda molto al passato».
Gonzalo: «Gabo era un uomo superstizioso. Per lui parlare della morte significava invocarla e quindi preferiva evitare l’argomento, non andava neanche ai funerali degli amici, mai. In compenso nei suoi libri è quasi un’ossessione, lo dimostra il modo in cui ha descritto la morte dei suoi personaggi. Ci sono dei passaggi davvero epici».
Quando avvertite la sua assenza?
Rodrigo: «Penso ogni giorno a Gabo e Mercedes, ma non c’è un momento particolare nel quale accade. Diciamo che l’addio a nostro padre è stato un lungo addio. Lui era ancora lì, ma era già da un’altra parte, abbiamo avuto il tempo di abituarci alla sua assenza, mentre nostra madre è morta veramente solo dopo la morte. La perdita del secondo genitore è più impressionante, cambia tutto».
Gonzalo: «Penso di avere conversazioni più lunghe con i miei genitori oggi di quando erano in vita. Ho iniziato a ricordare quello che mi dicevano durante l’infanzia, cose che avevo dimenticato e che stanno riaffiorando. Credo sia dovuto al bisogno di sentirsi ancora accompagnati da loro».
Che padre era Gabo?
Rodrigo: «Era molto presente perché ha sempre lavorato in casa, gli piaceva che mangiassimo insieme ogni giorno e s’informava sulla scuola, sulle nostre giornate. Ricordo pranzi della domenica affollatissimi, i suoi amici al tavolo con noi. Quando siamo diventati adolescenti le cose sono un po’ cambiate, ma solo perché a quel punto eravamo noi a non esserci».
Potevate entrare nel suo studio quando lavorava?
Gonzalo: «Le porte erano sempre aperte, ma il suo livello di concentrazione era tale che, a meno che non facessimo molto rumore, neanche si accorgeva che eravamo entrati. Mi ricordo un paio di volte nelle quali mi ha gridato di fare silenzio, ma nella maggioranza dei casi si fermava, ci guardava e poi si rimetteva a scrivere senza dire una parola, come se non ci avesse ascoltato. Quando lavorava era davvero in un altro universo».
Era a Macondo?
Gonzalo: «Era in ognuno dei luoghi dove ambientava le sue storie e quindi, nella maggioranza dei casi, nelle città della costa della Colombia».
La ricchezza, la fama e il successo mondiale lo hanno cambiato?
Rodrigo: «Cent’anni di solitudine è uscito quando eravamo bambini. Non abbiamo un’idea chiara di come fossero le cose prima, non avevamo la sensazione che ci mancasse qualcosa, le difficoltà economiche non ci toccavano. Forse, l’unica differenza è stata che dopo il successo planetario del romanzo abbiamo iniziato a viaggiare e ci siamo trasferiti in Spagna. Il Nobel nel 1982 è stata un’altra tappa, l’uscita de L’amore ai tempi del colera un’altra ancora».
Gonzalo: «I cambiamenti riguardarono la vita professionale di Gabo: rilasciava interviste, teneva lezioni, conferenze, seminari… La sua agenda divenne pienissima, ma nel profondo era sempre la stessa persona».
È vero che Gabo si riferiva a Cent’anni di solitudine come a quella “pinche novela” (“fottuto romanzo”)?
Rodrigo: «Come tutti gli artisti non voleva essere definito da un’unica opera. Non pensava che fosse insormontabile e temeva che tutto quello che avrebbe fatto da lì in avanti sarebbe stato considerato inferiore. Non è accaduto, il successo de L’amore al tempo del colera lo riconciliò con quel suo primo straordinario successo».
Entro la fine dell’anno vedremo Macondo su Netflix. Cosa dobbiamo aspettarci?
Rodrigo: «Speriamo bene! Noi abbiamo visto le prime puntate e le abbiamo trovate spettacolari. Del resto, le persone che hanno lavorato all’adattamento si sono impegnate molto e sono state supportate dalla produzione. È girato in Colombia e in lingua spagnola, come avevamo richiesto, e dura il tempo necessario. Saranno due stagioni da otto/nove ore ciascuna».
Vedremo la storia della famiglia Buendía là dove l’aveva concepita Gabo. Però quando toccò a lui dare l’ok per l’adattamento cinematografico di un’altra sua opera, Cronaca di una morte annunciata, aveva suggerito la Sicilia…
Rodrigo: «Sapeva bene che i film appartengono ai registi, ma a un certo punto deve averlo detto perché pensava che la Sicilia avesse molti aspetti in comune con la Colombia contadina degli anni Cinquanta. È stato Francesco Rosi a scegliere diversamente, a volerlo girare tra il villaggio di Mompos e Cartagena, e lui ha rispettato quella scelta».
Che legame aveva con Rosi?
Gonzalo: «Erano amici. Gabo era innamorato del cinema italiano, soprattutto del neorealismo dal quale Rosi proveniva. Ammirava Zavattini e De Sica, strinse un bel legame anche con Tonino Guerra, Monica Vitti e Gillo Pontecorvo».
Qual è il vostro libro preferito di Gabo?
Gonzalo: «Quando qualcuno mi chiede da quale libro iniziare a leggere Gabo io non rispondo mai Cent’anni di solitudine che, contrariamente a quello che molti pensano, vista la sua immensa popolarità, non è un libro facile. Consiglio Cronaca di una morte annunciata perché è un thriller avvincente, abbastanza breve, che ti cattura fin dalle prime righe. E poi c’è una motivazione personale: il delitto d’onore è ispirato a un fatto realmente accaduto nella città dove vivevano le famiglie di entrambi i nostri genitori, i personaggi hanno i nomi di parenti, amici e vicini, custodisce un pezzetto del mondo da cui provenivano Gabo e Mercedes».
Rodrigo: «Il mio è Cent’anni di solitudine. Accadono più cose in una manciata di quelle pagine di quante ne accadono nei romanzoni di 400 o 500 pagine che escono oggi. Ha una densità altissima, una grande capacità di invenzione, una gestione del tempo e delle emozioni molto speciale».
Capacità di invenzione... Gabo nelle sue interviste diceva che l’invenzione era solo una piccola parte del suo lavoro, si sentiva un realista.
Rodrigo: «Forse, ma in ogni caso le storie devono essere costruite, strutturate, devono avere una forma e un tono anche quando si basano su fatti reali».
Dunque, cosa ne pensate della definizione di “realismo magico”?
Gonzalo: «È solo un’etichetta commerciale. A un certo punto si è deciso che Márquez e la sua generazione erano “realismo magico” e così sono stati fatti conoscere in tutto il mondo. Un po’ come accaduto a Monet: lui non sapeva di essere un impressionista, lo chiamavano così gli altri, spesso con intento denigratorio».
Rodrigo: «In Cent’anni di solitudine ci sono molti elementi magici, soprannaturali, ma questo non significa nulla. Altrimenti, seguendo lo stesso ragionamento, dovremmo dire che Amleto che parla con il fantasma di suo padre è realismo magico. E poi la maggior parte dei suoi libri non hanno tocchi surreali o fantasy. Mi sembra una definizione pigra».
Chi era il primo lettore dei libri di Gabo?
Gonzalo: «Álvaro Mutis, che viveva qui in Messico, molto vicino a casa nostra. Mio padre aveva una fiducia assoluta in lui. E poi Carmen Balcells, ma erano veramente poche le persone coinvolte nel suo processo creativo».
Con gli scrittori e gli intellettuali che frequentavano casa vostra non parlava di letteratura?
Rodrigo: «Parlava di tutto: politica, vita quotidiana, arte, musica e libri, ma poco di teoria letteraria».
Perché?
Gonzalo: «Non vedeva la letteratura in quei termini, e poi a Gabo piaceva più ascoltare che parlare. La mattina lavorava e nei pomeriggi, quasi senza eccezioni, vedeva amici intimi o persone che avevano a che fare con i suoi interessi. Quasi mai conduceva la conversazione, restava in ascolto, sembrava esaminare le persone, forse si aspettava che gli spifferassero qualche segreto. Ciò che contava per lui era ottenere informazioni e questo in un’epoca dove non c’erano Internet e i social. L’informazione era la sua grande ossessione e infatti era sempre al telefono. Mia madre se ne lamentò per tutta la vita, diceva che sarebbero andati in rovina per via delle bollette».
E in politica? Qual era la sua ossessione?
Gonzalo: «Sempre la stessa, la pace in Colombia».
Dalla fine degli anni Settanta Gabo iniziò a trascorrere dei lunghi periodi a Cuba e divenne amico di Fidel Castro. Di cosa parlavano?
Gonzalo: «Non ci raccontava le loro conversazioni, ma quando si riferiva a lui lo faceva sempre con grande affetto».
Rodrigo: «Un affetto personale, non erano d’accordo su tutto».
Del suo vecchio amico Mario Vargas Llosa, invece, parlava mai?
Gonzalo: «Quando Vargas Llosa lo prese a pugni, nel 1976, alla première di un film a Città del Messico, noi eravamo molto giovani. Non abbiamo fatto domande allora e neanche dopo, non era un buon argomento. Sappiamo solo che non si sono mai più parlati. Sul perché, sono circolate diverse versioni, ma nessuna di queste è venuta da Gabo e Mario».
Rodrigo: «In altre parole, sono solo speculazioni».
Se poteste dire qualcosa oggi a Gabo, con questo libro tra le mani, cosa direste?
Gonzalo: «È molto meglio di come lo avevi giudicato. Non preoccuparti, lascia che le persone possano leggerlo ed esprimere un’opinione».
Rodrigo: «Volevamo fare la cosa giusta. Perdonaci, almeno un po’».