la Repubblica, 7 marzo 2024
sul linguaggio
Ho sentito Veltroni, quasi 70 anni, parlare lungamente con Augias, quasi 90, dell’Italia di Berlinguer. Non mi soffermo sul livello della conversazione (può darsi che io sia troppo influenzato dalla mia familiarità anagrafica e politica con quel linguaggio, quel tipo di cultura). Dico solo che pagherei qualcosa in cambio della garanzia, o almeno della speranza, che linguaggi ed esperienze diversi, non più novecenteschi, possano generare conversazioni su tutt’altri argomenti, ma di uguale densità.
Non è un’ansia di conservazione, credetemi. È, al contrario, un’ansia di innovazione: prima di salutare la compagnia vorrei essere certo che, mutati i tempi e i protagonisti, qualcuno ancora garantisca (anche inventandoselo) un linguaggio che abbia, in forme nuove, altrettanto valore di esperienza collettiva, e di prospettiva storica.
Proprio perché sappiamo che la Storia è tutt’altro che finita, servirebbero politici, intellettuali, giornalisti che abbiano la capacità di misurarla. Ma esiste ancora, uno sguardo “storico” sulle cose? Che non sia quello di pochi specialisti, ma appartenga a gruppi politici, circoli intellettuali, movimenti e comunità capaci di pensare, se non in grande, almeno con qualche ambizione di confrontarsi con il tempo, anzi i tempi (passato-presente-futuro, nessuno dei tre esiste senza gli altri due).
Un leader politico che, oggi, parlasse da intellettuale (che non vuol dire oscuramente: l’intellettuale spesso è proprio colui che spiega una cosa poco chiara), quali possibilità avrebbe di essere votato, o anche solo sopportato?
Nel caso, molto probabile, che non solo il mondo di Berlinguer, anche quello di Veltroni, Augias e mio, sia finito, la sola cosa che conta, ben al di là della normale malinconia per le cose che muoiono, sarebbe essere certi che il racconto del mondo non si interrompa mai.