la Repubblica, 7 marzo 2024
L’Europa riparta dal mito di Enea
Il 16 ottobre del 1944, in un discorso memorabile alla Virgil Society di Londra, T. S. Eliot incoronò l’ Eneide di Virgilio come il grande classico della letteratura europea. Il continente era in piena guerra mondiale. In Normandia era stato aperto da poco il secondo fronte, ma lo scontro tra totalitarismo e democrazia avrebbe provocato ancora morte e devastazione. Perché Eliot, in un momento così drammatico, sentì il bisogno di ricordare agli europei che l’ Eneide era l’espressione più alta della loro cultura? Come potevano dei semplici esametri virgiliani risollevare le sorti del continente?La diplomazia nel campo alleato aveva iniziato a preparare la pace fin dalla conferenza di Teheran del 1943. E anche molti intellettuali pensavano al dopo. Eliot era uno di questi, anche se per lui il futuro stava dentro il passato. E difatti, agli europei che si stavano combattendo, lui ripropose il modello di pace tra Latini e Troiani. Perché anche quello tra Turno ed Enea era stato uno scontro tra civiltà imparentate: la prima guerra veramente moderna, per ampiezza e profondità, che però a differenza delle guerre antiche tra Greci e Troiani o tra Ateniesi e Spartani, si era conclusa con un’alleanza che aveva cambiato il destino dell’Occidente.Oggi l’Europa è di nuovo minacciata dalla guerra: in Ucraina, in Medio Oriente, nel Sahel... Ed è nuovamente divisa al suo interno, per colpa di populismi, nazionalismi ed estremismi di varia natura. È come se l’orologio della storia fosse tornato indietro, se il continente fosse di nuovo sull’orlo dell’abisso. Ed è anche per questo che in vista del prossimo voto di giugno, può essere utile riandare al discorso di Eliot del 1944: provando a capire se l’ Eneide abbia ancora qualcosa da dirci, magari sui temi di cui farebbe senso parlare nel corso di una campagna elettorale veramente europea.Il primo tema cui tende tutta l’opera di Virgilio è quello del foedus, il patto federale tra Troiani e Latini. Era un patto di pace sacro, che doveva legare gli ex nemici per sempre ed essere da esempio per le generazioni future. La Roma imperiale figlia dell’ Eneide fu questo, una federatrice implacabile di popoli, come aveva predetto Anchise nell’Ade. A dimostrazione che riprendere oggi una via federale, anziché un salto nel buio, non sarebbe altro che la riproposizione di modelli pensati e sperimentati fin dall’antichità.Certo che i tempi sono cambiati, e che l’Europa, dopo il doppio suicidio nel Novecento, non potrà più pretendere di stare al centro del mondo. Ma sul come far convivere e prosperare degli ex nemici, l’Unione europea nata negli anni Cinquanta vanta un’esperienza unica, che sarebbe un peccato andasse perduta. E dunque federata al suo interno, e federatrice fuori dalle proprie frontiere praticando il multilateralismo. Ecco l’Europa ideale. Sempre che sappia rigenerarsi, crescere, ritrovare la vocazione a capire il mondo.Un secondo grande tema di attualità posto dall’ Eneide è quello del migrante che fonda un ordine nuovo. Il modello romano sarà quello della civitas aperta. Agli antipodi rispetto quello greco di polis chiusa, dove contavano il sangue, la stirpe, il clan. La civitas romana accoglie razze, lingue e religioni diverse, e in questo senso l’editto di Caracalla del 212 che trasforma gli abitanti dell’impero in cittadini romani resta qualcosa di insuperato. Ebbene, quell’idea immaginifica di una cittadinanza non basata sul sangue era già nell’Eneide. L’avevano portata i Troiani da Oriente. E conteneva tutta la carica rivoluzionaria dell’idea di cittadinanza europea.È un tema immenso quello dell’eroe migrante che ridisegna l’Europa. E che da allora diventa un riferimento per le varie casate continentali che nei secoli hanno poi cercato un capostipite tra i profughi troiani, a partire dai Franchi di Carlo Magno. Basterebbe questo a farci guardare con occhi diversi al fenomeno migrazioni. A farci capire che i migranti, lungi dall’essere un’emergenza, sono da sempre, dal tempo in cui i Sapiens africani sconfissero i Neanderthal europei, uno dei motori del mondo con cui fare i conti, insieme al pensiero filosofico-religioso e al progresso tecnologico.E infine c’è un terzo tema posto dall’ Eneide, quello della scommessa sul futuro per salvare il proprio passato. «Se smettiamo di credere al futuro, il passato cesserà di essere il nostro passato: diventerà il passato di una civilizzazione estinta», scrive Eliot. Ed è il motivo per cui Enea scommette sulsuo futuro rinunciando a una parte di identità, accettando per Roma la lingua latina degli sconfitti anziché quella troiana dei vincitori. Consapevole che lo spirito di una civiltà, per sopravvivere, deve a un certo punto reincarnarsi in un altro corpo, diventare altro da sé. E che solo così potrà evitare di estinguersi. Troia dunque rinasce in Roma, la sua anima – cioè la sua memoria – trasmigra nella nuova civiltà per darle linfa vitale. È il cambiamento a salvare la tradizione.In termini contemporanei, se gli europei volessero emulare i Troiani di Enea, dovrebbero scommettere sul proprio futuro cambiando le regole della loro Unione. Vorrebbe dire ripartire dalla politica, rifondare la governancebrussellese, rivedere i trattati, dotarsi di una politica estera e di difesa comune per poter sopravvivere al XXI secolo e far prevalere il diritto internazionale. E poi vorrebbe dire ridare all’Europa una nuova ragion d’essere, ponendo le transizioni energetica e ambientale al centro di tutto. Un’altra Europa quindi. Più comunitaria che intergovernativa. Capace di far sentire la propria voce e di giocare il gioco globale a partire dalla sfida più grande, quella di salvare il pianeta dall’uomo.Sognare ad occhi aperti non costa nulla, anzi in certi momenti aiuta a restare vivi. E quindi è bello sognare una campagna per le elezioni del prossimo giugno basata sui temi veramente europei posti dall’Eneide: il federalismo, il ruolo dei migranti, il cambiamento che salva la tradizione. Ma non sarà così, meglio farsene una ragione. E comunque il discorso sull’ Eneide di Eliot del 16 ottobre del 1944 andrebbe letto lo stesso. Si intitola What is a Classic, in rete c’è l’edizione Faber and Faber del 1945. Una lettura per riconnettersi con il nostro passato, la profondità, con una visione epica dell’esistenza in cui i morti contano più dei vivi. Per resistere al «provincialismo del tempo». Per capire che essere europei, oggi più che mai, vuol dire ripartire dal mito.