La Stampa, 7 marzo 2024
Le colpe di Biden
Joe Biden è vecchio, e così Trump. La vecchiaia reale è definita infatti, drammaticamente, per entrambi, da limiti fisici. Ma in politica la vecchiaia ha a che fare con ben altro. L’età dei due infatti non ha avuto, in queste primarie, lo stesso impatto. Biden ha evidenti disfunzioni, di memoria e di coerenza. Tali da essere considerate ormai un problema anche dal mondo democratico che lo appoggia – senza far mistero della propria preoccupazione. Trump è invece meno piegato da problemi fisici, ma certo ne soffre anche lui – nella ripetizione di battute, nella fatica dei gesti, nel modo come spesso attraversa il confine fra quello che si può dire e quello che non si può nominare.Ma, appunto, l’effetto vecchiaia in politica non è (solo) fisico, anzi. Ha a che fare con la visione, il progetto, il dinamismo. Lo abbiamo visto bene nel corpo a corpo di questa cavalcata delle Primarie, dove i due hanno avuto un impatto diversissimo, a dispetto della comune età. Trump si è rivelato ancora una volta un avversario devastante per i dem, per aver riproposto a Washington la sua idea di elettori e di politici. Idea che, d’accordo o meno, è nuova. Tanto che il partito repubblicano, come si è visto, non è riuscito ad arginarlo perché Trump, con questa piattaforma, il partito lo ha travolto da tempo.Al contrario, il presidente Biden, eletto 4 anni fa contro Trump, come l’ultimo rimasto di un onorevole passato del mondo democratico, in una operazione di restaurazione, fondata sulla nostalgia, ha fatto primarie solitarie, per totale mancanza di talento e carisma dentro il suo partito. E in questo si è misurata la sua vera vecchiaia: per la prima volta in decenni un Presidente (e vale per i dem come per i repubblicani) non ha portato a un ricambio di classe dirigente a Washington. È un handicap non da poco per il candidato dem. Considerando gli anni del Dopoguerra, cioè quelli comunemente definiti come gli anni dell’egemonia Usa, gli Stati Uniti si sono sempre trovati al centro di una fortissima dinamica del cambiamento – culturale, economico, militare, tecnologico – che ha lasciato la sua impronta anche in politica. L’alternanza fra democratici e repubblicani è stata puntuale, con scadenze a volte strettissime (spesso un solo mandato), e con approcci sempre obbligatoriamente rinnovati di fronte a sfide diverse.A partire dal Dopoguerra, periodo di maggiore fortuna del modello americano, il più forte salto generazionale e culturale è sicuramente quello fra Dwigth Eisenhower, eroe di guerra, eletto a 63 anni e ritiratosi a 71 anni, e John Kennedy, eletto a 44 anni. È il ricambio anche più ovvio, divenuto un romanzo popolare per indicare l’avvento di un nuovo mondo a guida americana. I kennedyani portano una vera e propria rivoluzione nelle fila di Washington, e la loro influenza ne fa a lungo protagonisti nella Capitale. Altro grande salto, dopo Johnson (democratico) e Nixon (repubblicano) è l’elezione di Carter, democratico dall’esile profilo politico, che pure ha lasciato la grande impronta della formalizzazione dei diritti umani come stella polare della politica.Un altro grande salto di classe dirigente lo porta a Washington il suo successore, Ronald Reagan, che riscrive il profilo del mondo conservatore con un mix inedito di tradizione e modernità, neoimperialismo e neo liberismo sociale, comunicazione e seduzione. Una riscrittura del nuovo mondo capitalista in cui la libertà dalle costrizioni ideologiche e pubbliche mette il turbo allo sviluppo “ineguale” e, paradossalmente, prepara l’arrivo ( dopo un altro repubblicano, l’impeccabile ma debole George Bush) di un’altra generazione a Washington, quella del democratico Clinton.Anche lui molto più giovane di Reagan, Clinton invade Washington con l’intero suo mondo al seguito, la sinistra dell’Ivy League, e della fine del welfare, come insegnato appunto dal neoliberista di Reagan, combinati con le passioni degli albori delle meraviglie del Web. I successori di quel cambiamento, sono ancora così vicini e ambiziosi, da non dover ricordare in dettaglio (il pensiero va a Hillary Clinton) l’impatto che ciascuno di loro ha avuto in America. Segue George W. Bush, il Presidente delle nuove guerre globali, come lotta terrorismo. E poi Barack Obama, che rompe tutti i clichè della storia americana su razza, cultura, elite e soprattutto Presidenza. Infine Trump con l’effetto nazionale e globale della sua rivisitazione da destra della rivolta e del rapporto fra classi.E se, madamina, il catologo è questo, fa un po’ imbarazzo inserirvi l’operato di Joe Biden. Non che non ne avesse l’opportunità per entrarci. Dopo Trump e dopo le guerre e le crisi che chiudono i primi anni venti del secolo, gli Usa sono stati investiti da conflitti interni riguardanti identità, razziali e religiose, da diseguaglianze economiche e cambio di profili politici ridisegnati dal traino delle tecnologie.In questo schema di tumultuoso cambio – intercettato e interpretato da Trump in una possibile versione – Biden e i democratici avevano ogni possibilità di intervenire. Al voto, nella scorsa elezione, si è anche visto un barlume di qualche novità, di idee e di personale politico. Ma alla fine, a Washington nulla di tutto questo sembra essere nemmeno arrivato. La promettente sinistra interna dem si è rivelata inefficace. Il dibattito politico è stato scarso. Il personale politico altrettanto. Nemmeno la scelta di una donna è riuscita a creare un solido vicepresidente. La Washington del Presidente Biden non ha portato al potere, come si diceva, una nuova generazione, perché non ha raccolto quasi nulla di questi tempi nuovi, fatti di pandemia, guerre, nuove domande sociali, nuove sfide globali. La sua difficoltà è più che vecchiaia. È la ratifica della difficoltà con cui la sinistra tutta vive questo passaggio