Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  marzo 07 Giovedì calendario

La donna che inventò la bomba atomica


I forti non sono amati da tutti. Sono scomodi. Sono poco manipolabili. I forti sanno sentire se stessi, conoscono i loro diritti e non sono disposti a rinunciarci. Per questo mi piace mettermi sulle loro tracce, soprattutto se scienziati, soprattutto se dimenticati.
Tra i forti, i miei preferiti sono quelli che sanno essere felici. Ecco, quando trovo un personaggio così io mi innamoro. Mi è successo di recente, lei si chiama Leona Woods, ed è stata la fisica più giovane ad aver lavorato con Robert Oppenheimer al Progetto Manhattan. Di lei non ha mai parlato o scritto nessuno. Per questo ci ho pensato io.
Ho trovato la sua storia mentre stavo cercando altro, stavo approfondendo la figura di Arthur Compton, il fisico Premio Nobel che ha dimostrato sperimentalmente l’effetto fotoelettrico di Albert Einstein, e il nome di Leona mi è saltato all’occhio perché trovai che Compton le leggeva passi della Bibbia durante gli anni della costruzione della bomba atomica.
Ho approfondito subito tutto. Di lei ho faticato a trovare informazioni, ho dovuto viaggiare in America per raccoglierle, nel New Mexico, poi a Princeton e a Chicago. E quando sono tornata in Italia, ci ho costruito intorno un romanzo e uno spettacolo teatrale, dal titolo La donna della bomba atomica (Mondadori), da pochi giorni in libreria, e in tour nei teatri.
Leona Woods si è laureata presto, all’età di 18 anni, in fisica nucleare, all’Università di Chicago, era un vero prodigio nella tecnica dei rilevatori di particelle. Dottorato a 23, e il giorno seguente le hanno proposto l’assunzione al Progetto, nel gruppo di Enrico Fermi.
Leona è stata un asso nello studio della tecnologia a vuoto, è lei che ha risolto il problema dell’acqua pesante che ha mandato in blocco il reattore di Hanford, a cui nemmeno Fermi era riuscito a venirne a capo. Eppure, la comunità scientifica di Los Alamos la osteggiava, le battute che le facevano erano volte a sminuirla, le veniva detto di continuo che una donna «doveva occuparsi d’altro». Lei non solo non si è occupata d’altro, ma durante gli anni di lavoro al Progetto si è anche sposata e ha avuto un figlio.
Il racconto che vi faccio di Leona è sotto forma di diario, e quindi non può non emergere dalle sue parole la figura di Enrico Fermi, suo riferimento indiscusso, oltre naturalmente al sopracitato Arthur Compton. Enrico è stato la mente, la vera scienza dietro la costruzione della bomba atomica. Senza di lui, senza la sua Pila, non ci sarebbe stata la bomba al plutonio, non ci sarebbe stato nessun Trinity Test, e non ci sarebbe stato il successo americano tanto sbandierato dai film d’oltreoceano. Non ci sarebbero stati i calcoli esatti. Non ci sarebbe stata l’innovazione scientifica. E non ci sarebbe stato il lato più umano dell’intero Progetto.
Fu Enrico ad evitare che altri scienziati si alleassero affinché Leona venisse mandata via perché incinta, fu Enrico che ha alleggerito tante giornate di lavoro di Leona proponendole nuotate al lago e spedizioni di pesca alla trota, fu Enrico che ha favorito l’impiego di Leona nelle fasi cruciali del Test, al posto di altri meno qualificati, premiandola quindi per merito, malgrado fosse una donna, e il suo utilizzo era malvisto da tutti.
Leona Woods non compare nel film Oppenheimer di Christopher Nolan. Ma il film, come tanti di quel genere, riesce ad assumere una tale aria di autorità a farci supporre che la sua sorprendente mancanza di rappresentanza femminile sia dovuta al suo ammirevole impegno per l’accuratezza storica. Non è così. Noi dobbiamo e dovremmo pretendere che un film del genere rappresenti in modo accurato ed equo le scienziate che erano proprio lì, insieme a Oppenheimer e ai suoi uomini, a garantire il successo del Progetto Manhattan.
Nel film la prima donna parla dopo 30 minuti dall’inizio della visione, ed è una cameriera. Le altre che compaiono sono tutte mogli, amanti o in secondo piano e sfocate dietro agli uomini. Forse sarebbe stato appropriato se gli spettatori avessero lasciato la visione delle tre ore di film sapendo che Kitty Oppenheimer non si limitava a bere fino a ubriacarsi mentre si prendeva cura dei bambini, ma era anche una botanica qualificata che lavorava a Los Alamos per prelevare il sangue e testare i livelli di esposizione alle radiazioni dei suoi colleghi. Più di 600 donne hanno lavorato al Progetto Manhattan solo a Los Alamos. Quelle donne erano fisiche, ingegnere, chimiche, matematiche. Esistevano. Ma come sempre accade, molti dei loro successi sono stati dimenticati e rimangono non riconosciuti, sia dalla Storia sia dal Cinema.
Per questo ci ho pensato io. C’è un destino comune che accompagna i forti, hanno sempre qualcun’altro di fianco che vuole oscurare il loro splendore. Per questo ho ricostruito la storia della bomba atomica seguendo le tracce di Leona Woods, di Arthur Compton e di Enrico Fermi. I forti sanno sempre come risorgere. Perché malgrado tutto, sanno diventare quello che hanno sempre sognato di diventare