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 2024  marzo 03 Domenica calendario

La selvaggia del Settecento

Al tramonto di una giornata del settembre 1731, gli abitanti di Songy, un villaggio dell’interno della Francia, avevano visto spuntare una singolare creatura. Era piccola, aveva i piedi nudi bianchi, ma le mani e la testa, coperta da una zucca vuota, erano nere. Era vestita sommariamente con brandelli di pelli e di stoffa e brandiva una specie di clava. Spaventati da quelle stranezze, erano scappati urlando: «Il diavolo! Il diavolo!», per rifugiarsi nelle loro case. Un contadino che aveva osato lanciarle contro un mastino, aveva visto la sconosciuta, per nulla impaurita, stenderlo morto con una sola, violenta, bastonata, per poi fare una specie di danza sul cadavere. Quindi, dopo avere provato a entrare in una casa – come si era venuti a sapere in seguito era assetata –, era tornata nel bosco, dove si era addormentata in cima a un albero.
Era iniziato così l’ingresso della piccola selvaggia nella vita civilizzata, per quanto potesse esserlo in quel remoto pugno di case, raccontata con la grazia di una fiaba da una donna che prima si era firmata con M…t, e in seguito con il nome intero, Marie-Catherine Hecquet (1686-1764). La ragione di tanta cautela poteva essere la difficile posizione in cui l’autrice, una giansenista convinta, si era trovata in un momento in cui i suoi correligionari venivano guardati con diffidenza. Come se non bastasse Hecquet aveva anche lottato contro il pregiudizio, ispirato da San Paolo ai giansenisti, che le donne non dovessero occuparsi di religione.
La Storia di una ragazza selvaggia trovata nei boschi all’età di dieci anni, questo il titolo originale, era nata dall’incontro, nel 1753, di madame Hecquet con quella che era ormai diventata una celebrità, l’unica tra i “ragazzi selvaggi” ad avere imparato a leggere e a scrivere. Alla stesura del racconto (ben tradotto da Graziano Benelli) aveva contribuito anche un esploratore, Charles de la Condamine, che aveva fatto un viaggio proprio alla ricerca di una repubblica di “donne selvagge”, le mitiche Amazzoni. Proprio in quegli anni si sarebbe affermata l’idea di Rousseau che contrapponeva le virtù naturali del Buon Selvaggio ai vizi dell’uomo corrotto dalla società.
Non era stato facile però catturare l’intrusa. Quando il castellano del posto, il visconte d’Espinay, l’aveva ordinato, un pastore, intuendo che si era avvicinata all’abitato cercando acqua, ne aveva messo un secchio ai piedi dell’albero. Dopo avere controllato che intorno non ci fosse nessuno, la ragazza era scesa dall’albero e aveva immerso il viso nell’acqua, ma, appena aveva sentito dei fruscii, era risalita velocemente. Per farla scendere avevano mandato una donna con un bambino e due pesci in mano, che l’aveva attirata nella trappola. Portata in una cucina, si era buttata sulla carne cruda che non masticava, ma faceva a pezzi e ingoiava. Una volta lavata, avevano visto che anche il viso e le mani erano bianchi. L’unica cosa strana era l’eccezionale grandezza dei pollici che le servivano, aveva spiegato, per aggrapparsi meglio ai rami degli alberi su cui si arrampicava con agilità. Convertita e battezzata, mademoiselle Marie-Angélique Le Blanc non riusciva a digerire i cibi cotti, il sale e la farina, che la facevano vomitare a lungo. Appena vedeva un corso d’acqua, si tuffava vestita, per emergerne con dei pesci che sventrava con le unghie e divorava crudi. Pur camminando a passi brevi, era velocissima, riusciva a passare dalle aperture più piccole e correva senza problemi sui tetti. Col tempo aveva imparato a parlare, anche se le era rimasta una lieve incertezza. Marie Leszczy?ska, la regina di Francia che la proteggeva, aveva voluto incontrarla e l’aveva vista rincorrere e catturare con le mani le lepri che passavano sul prato, per poi portargliele in dono. Le piacevano in particolare le rane e un giorno, durante un banchetto, ne aveva buttate sui piatti spaventando gli invitati.
Sicuramente era fuggita da una delle tante navi che tornavano dall’America con merci esotiche e schiavi. Per capire da dove veniva, madame Hecquet le aveva fatto vedere le statuine di selvaggi di vari paesi e le era sembrato che lei riconoscesse quelle degli esquimesi. Malgrado il suo coraggio, la presenza di un uomo la spaventava moltissimo, il che aveva spinto a credere che fosse stata violentata. Quando un aristocratico, ignorando gli avvertimenti, aveva cercato di abbracciarla aveva ricevuto un colpo così violento da lasciarlo tramortito.
Poco a poco si era arresa ai cibi cotti, ma la sua salute si era indebolita e le erano caduti i denti, che però le erano ricresciuti. Durante la sua vita era passata da un convento all’altro dove però prima o poi la deridevano ricordandole le sue origini. A 63 anni era morta a Parigi, dimenticata da tutti e probabilmente avvelenata da un creditore, la “selvaggia” che il filosofo scozzese James Burnett aveva definito «la persona più straordinaria del suo tempo».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Marie-Catherine Hecquet
Storia
della bambina selvaggia
A cura di Graziano Benelli
Elliot, pagg. 80, € 12