La Lettura, 3 marzo 2024
Su Luigi Einaudi
Il 24 marzo ricorrono 150 anni dalla nascita di Luigi Einaudi (1874-1961), insigne economista liberale che fu governatore della Banca d’Italia, ministro del Bilancio e poi, dal 1948 al 1955, presidente della Repubblica. Abbiamo chiamato a discuterne il pensiero e l’opera tre studiosi: Roberto Marchionatti dell’Università di Torino; Clara Mattei della New School for Social Research di New York; e Nicola Rossi dell’Università di Roma Tor Vergata.
Ai primi del Novecento Luigi Einaudi si afferma come firma del «Corriere della Sera» criticando la politica riformatrice del capo del governo Giovanni Giolitti. Era una posizione giustificata, tenendo conto che si trattò di un’epoca di crescita per l’Italia?
ROBERTO MARCHIONATTI — L’analisi di Einaudi era corretta, ma la critica a Giolitti per alcuni versi eccessiva. In quel periodo la crescita economica accelera, l’Italia si modernizza, aumentano i salari, diminuisce il divario con i grandi Paesi europei. Ma per Einaudi e altri economisti questo progresso è dovuto solo «in qualche parte» all’opera dello Stato. Lo attribuiscono soprattutto a fattori internazionali, un giudizio che gli studi più recenti confermano, pur attribuendo notevoli meriti anche alla politica giolittiana.
Perché invece Einaudi non li riconosce?
ROBERTO MARCHIONATTI — Sulla base dei dati raccolti dallo statistico Riccardo Bachi, suo stretto collaboratore, Einaudi nota che c’è stato un irrobustimento del tessuto industriale, dovuto in particolare all’apporto di capitali esteri. Ma aggiunge che la crescita poteva essere superiore, perché l’apertura internazionale è stata insufficiente e l’intervento pubblico distorsivo. Giudica negativamente la nazionalizzazione delle ferrovie, dei telefoni e delle assicurazioni sulla vita; critica i sussidi statali concessi a diversi settori, in primo luogo la siderurgia. A suo avviso il governo non sviluppa la concorrenza come sarebbe necessario. In sostanza Einaudi non considera a sufficienza l’intenzione giolittiana di evitare le rendite private nei settori statalizzati e di riformulare gli incentivi alla concorrenza.
CLARA MATTEI — La posizione di Einaudi, che non vede di buon occhio il «proto-keynesismo» di Giolitti, è del tutto coerente con la sua prospettiva teorico-politica liberista. Ma presenta due evidenti contraddizioni. La prima riguarda l’intervento pubblico: Einaudi combatte le nazionalizzazioni dei settori produttivi e la politica sociale ridistribuiva di Giolitti, ma sostiene convintamente un’azione dello Stato orientata a proteggere il mercato e la proprietà privata e a tenere bassi i salari. Ritiene necessario mantenere un tasso di sfruttamento del lavoro adeguato per una crescita economica capitalistica. Per questo formulerà un giudizio positivo sulla Carta del lavoro fascista del 1927.
E la seconda contraddizione?
CLARA MATTEI — Concerne la competizione. Secondo Einaudi la concorrenza perfetta, senza intervento pubblico, è il modo migliore per far fiorire l’economia e prosperare l’umanità. Non si rende conto che il mercato, lontano dall’essere al servizio delle persone per soddisfarne i bisogni, è in realtà lo strumento più efficace per l’accumulazione del profitto privato. La sua idealizzazione della concorrenza, in una prospettiva marxiana, è pura retorica, smentita dalla realtà dei processi storici. La competizione non è un processo virtuoso, ma una guerra su tutti i fronti che porta alla concentrazione delle risorse. Einaudi dice: no al monopolio, ci vuole la concorrenza. Ma in effetti il monopolio è esattamente il prodotto della concorrenza.
NICOLA ROSSI — A mio parere Einaudi aveva ragioni da vendere nella sua critica a Giolitti. Non è molto utile valutare la crescita italiana di quegli anni in termini assoluti. Se si guarda a che cosa accadeva a livello internazionale, si constata che il prodotto interno lordo dell’Italia cresce meno rispetto al resto d’Europa, eccezion fatta per la Gran Bretagna. E lo stesso vale per l’andamento della produttività totale dei fattori. Se poi consideriamo i brevetti italiani negli Stati Uniti, cioè un indicatore non puramente economico, vediamo un segno di risveglio delle capacità creative del Paese, ma è molto timido, tanto più che si veniva da una situazione gravemente arretrata. Nulla di paragonabile comunque a quanto avverrà dopo la Seconda guerra mondiale.
Einaudi aveva visto giusto?
NICOLA ROSSI — Le scelte del decennio giolittiano non offrono molto circa la possibilità del Paese di fare un salto in direzione dello sviluppo. E non mi pare utile ricondurre la critica einaudiana a una visione liberista contrapposta al «keynesismo» di Giolitti. Trasformare monopoli privati in monopoli statali, come fecero i governi di allora, non produce sostanziali passi avanti. Semplicemente sposta la rendita dagli imprenditori al potere pubblico.
Einaudi si mostra in una prima fase molto indulgente verso il fascismo. Come mai?
ROBERTO MARCHIONATTI — Come la stragrande maggioranza dei liberali dell’epoca, Einaudi vede erroneamente nel fascismo uno strumento temporaneo utile per rafforzare lo Stato e promuovere una solida economia di mercato. E giudica positivamente il programma incarnato dal primo ministro delle Finanze di Mussolini, Alberto de’ Stefani, che gli appare ispirato al liberalismo classico. Il distacco da questa posizione avviene tuttavia abbastanza presto. Già nel maggio 1923, sei mesi dopo la marcia su Roma, Einaudi scrive sul «Corriere della Sera» un articolo in cui sostiene che non è possibile essere liberali in finanza e illiberali in politica, paventando l’avvento del dominio di un uomo solo che esautorasse il Parlamento.
Quindi distingue tra il programma economico e quello istituzionale del fascismo?
ROBERTO MARCHIONATTI — Esprime delle riserve anche sulla riforma tributaria, ma il suo bersaglio principale è una linea governativa che porta allo stravolgimento del regime liberale. D’altronde giovani antifascisti come Piero Gobetti e Carlo Rosselli vedono in lui un maestro, pur criticando alcuni aspetti del suo pensiero. Nel 1924 Einaudi pubblica presso Gobetti il libro Le lotte del lavoro e scrive una prefazione per il saggio Sulla libertà di John Stuart Mill, pietra miliare del pensiero liberale. E attacca sempre duramente la dottrina corporativa del fascismo, perché a suo avviso l’equilibrio sociale è il frutto dell’antagonismo tra forze contrastanti, un equilibro che non si raggiunge nella quiete della schiavitù, ma «nel travaglio che è vita».
Quindi ha una visione conflittuale?
ROBERTO MARCHIONATTI — Direi che cerca di dare al liberalismo un fondamento etico. Ciò avviene soprattutto negli «anni del raccoglimento», quando Einaudi, dopo aver lasciato il «Corriere» fascistizzato nel 1925, si ritira a vita privata. All’inizio degli anni Trenta viene in Italia l’economista americano Henry Schultz, che va a trovare Einaudi e lo descrive nel suo diario come un uomo che non si è assoggettato al regime, lodando la sua rivista «La Riforma Sociale» come l’unica voce critica rimasta. E infatti quel periodico viene chiuso dal fascismo nel 1935.
CLARA MATTEI — In realtà è proprio con l’avvento di Mussolini che si rivela lo strettissimo legame tra liberalismo e fascismo quando si tratta di proteggere le fondamenta del capitalismo in un momento di enorme richiesta di cambiamento sociale da parte delle classi subalterne. Einaudi e gli altri liberali capiscono allora che serve un uomo forte per restaurare l’ordine funzionale alla ripresa economica capitalistica. Ciò emerge con chiarezza nelle corrispondenze scritte da Einaudi per il settimanale britannico «The Economist», raccolte proprio da Marchionatti. Il suo innamoramento per la politica economica del fascismo, in quanto indirizzata a tutelare la proprietà privata e a comprimere i salari, si prolunga ben oltre il delitto Matteotti del 1924. Ed è comune a gran parte dell’élite liberale internazionale.
Quindi non si tratta solo di una sintonia temporanea con de’ Stefani.
CLARA MATTEI — In una lettera aperta del 14 gennaio 1922, de’ Stefani consiglia le opere di Einaudi ai giovani che vogliano formarsi una mentalità fascista in campo economico. Del resto la distinzione tra la dimensione politica e quella economica non regge. Einaudi sa bene che un potere autoritario, capace di tutelare l’ordine pubblico contro i lavoratori, è essenziale alla ripresa del capitalismo. Nel momento in cui avanzano alternative economiche serie al sistema basato sul profitto privato, con aumenti salariali e riforme fiscali redistributive, Einaudi si oppone fieramente. Lo scandalizza anche il fatto che gli operai possano consumare dolci, cioccolata e biscotti. E contesta con forza la teoria di Marx che indica nello sfruttamento dei lavoratori la fonte della ricchezza. A suo avviso il valore deriva dal risparmio, che quindi lo Stato deve incentivare, anche con la deflazione monetaria, a danno delle retribuzioni. Per questo bisogna togliere diritti e risorse ai salariati con un’austerità brutale, che solo un uomo forte al governo può realizzare.
C’è qualche analogia con l’austerità adottata di recente per evitare la crisi dell’euro?
CLARA MATTEI — Non c’è dubbio: si tratta sempre di intervenire per imporre moderazione ai lavoratori e assicurare gli interessi delle classi abbienti. Il connubio tra economisti liberali neoclassici e governi autoritari si è del resto ripetuto più volte: si pensi all’appoggio che Milton Friedman diede alla dittatura cilena di Augusto Pinochet, o al sostegno di Larry Summers al presidente russo Boris Eltsin.
NICOLA ROSSI — Io penso di essere un liberale e ritengo di non poter sottoscrivere nemmeno una virgola di quello che è appena stato detto.
CLARA MATTEI — Non sto inventando nulla: ho fatto un lungo lavoro d’archivio che mi ha portata a queste conclusioni. Noi accademici, che abbiamo il privilegio di poter studiare la storia, abbiamo il dovere di sfatare le ideologie che stanno portando la società al completo disfacimento.
NICOLA ROSSI — Sostenere che il liberalismo sia funzionale alle dittature è un’affermazione insensata. In realtà la posizione assunta da Einaudi nel 1922 è coerente con quelle successive. Si era illuso che de’ Stefani fosse il fascismo, ma non era così, tant’è vero che il ministro delle Finanze venne destituito già nel luglio 1925. Ma non è vero che Einaudi ritenesse concepibile separare la libertà economica da quella politica. E del resto dopo il 1945 egli potè ricoprire cariche tanto prestigiose, fino ad essere eletto presidente della Repubblica, proprio perché l’intera opinione pubblica vedeva in lui un implacabile oppositore del fascismo.
ROBERTO MARCHIONATTI — Nella seconda metà degli anni Venti Einaudi avvia un confronto con Benedetto Croce e con John Maynard Keynes sul significato del liberalismo in un momento storico di crisi dell’Occidente. La questione è quale ordinamento economico sia adeguato all’affermarsi della libertà. Einaudi ritiene essenziale una ricca e varia fioritura umana, in cui coesistano molte forze vive, industriali, commercianti, agricoltori, professionisti, «tutte traenti da sorgenti proprie i mezzi materiali di vita». Quindi rifiuta l’idea che la libertà possa affermarsi in qualsiasi ordinamento economico. Critica il comunismo, ma anche il capitalismo.
Come mai?
ROBERTO MARCHIONATTI — Per comunismo intende un’organizzazione coercitiva della produzione determinata dal gruppo dominante. Lo giudica un caso estremo di attuazione del principio socialista. Diverso il suo giudizio sul socialismo, il cui confronto agonistico con il liberalismo gli appare «fecondo e creatore», purché il liberale non ignori la necessità della cooperazione tra gli uomini che vivono in società e il socialista non neghi, come è accaduto in Russia, il diritto dell’individuo di vivere a modo suo.
Ma in che termini Einaudi biasima il capitalismo?
ROBERTO MARCHIONATTI — Giudica negativamente i monopoli privati, che a suo avviso realizzano «la pace forzata della tirannia totalitaria». Si riferisce alla grandi concentrazioni di potere economico tipiche dell’America di fine Ottocento: non gli piace un regime in cui si dà a un numero decrescente di capi il privilegio esclusivo di governare gli strumenti materiali della produzione. Comunismo e capitalismo monopolistico, a suo avviso, tendono entrambi a uniformare le azioni e a soffocare lo spirito.
CLARA MATTEI — Einaudi si illude quando pensa che il monopolismo sia l’eccezione e non la regola del sistema capitalistico in quanto tale. È la competizione che porta alla concentrazione del potere.
ROBERTO MARCHIONATTI — Per Einaudi la possibilità che si creino monopoli nella crescita del capitalismo è un problema costante. Non ha una visione ingenua per cui la concorrenza risolve tutto: si pone anzi l’esigenza di controllare le tendenze monopolistiche, per esempio attraverso la legislazione antitrust.
CLARA MATTEI — Il fatto è che non si può proteggere la concorrenza attraverso le privatizzazioni, perché sappiamo che più mercato significa in realtà prevalenza dei forti sui deboli.
NICOLA ROSSI — Ogni impresa cerca di ottenere posizioni di rendita, quindi di sfuggire al mercato, che è una disciplina tremenda per ciascun operatore economico. L’intento di Einaudi è riportare queste aziende dentro il mercato, aumentando la concorrenza o introducendo norme antitrust.
CLARA MATTEI — Nella visione dell’economia liberale neoclassica le imprese, per resistere alle pressioni del mercato, devono cercare costantemente di abbassare i costi, aumentando lo sfruttamento dei lavoratori.
NICOLA ROSSI — Non è detto: si possono anche introdurre innovazioni produttive.
CLARA MATTEI — Nel mercato ci sono sempre perdenti e vincitori. Non è sfuggire al mercato, ma vincere al suo interno che porta ad accrescere il potere delle imprese e a renderle monopolistiche. Quanto alla libertà economica, Einaudi la interpreta sfuggendo alla dimensione di classe. Il suo individualismo metodologico lo porta a ritenere che tutti possano affermarsi operando sul mercato. Ma ciò significa ignorare che in un’economia capitalistica la libertà economica dell’imprenditore si fonda sulla coercizione imposta ai dipendenti salariati, che non hanno alcun controllo sul processo produttivo e sul risultato del loro lavoro.
Quale sarebbe una visione alternativa?
CLARA MATTEI — Penso all’elaborazione di Antonio Gramsci e del gruppo torinese dell’«Ordine Nuovo». Per loro il sistema economico dominante si basa sull’illibertà economica imposta alla classe operaia. E nel momento in cui i lavoratori industriali e agricoli si mobilitano, dopo la Prima guerra mondiale, occupando le fabbriche e le terre, i pensatori come Einaudi mettono in secondo piano la libertà politica, perché la loro priorità è tenere ben saldi i rapporti di produzione capitalistici. Quindi auspicano la formazione di governi forti, anche autoritari, capaci di reprimere il tentativo delle masse di sovvertire le basi del sistema.
NICOLA ROSSI — Einaudi vive in un Paese in cui la scissione tra la libertà politica e quella economica è sempre presente. In tutto il mondo il fenomeno dei salvataggi di banche e industrie dissestate è perlopiù limitato ai momenti di emergenza economica, come le crisi del 1929 e del 2008. In Italia invece operazioni del genere si verificano sempre, a prescindere dalla situazione generale, tant’è vero che il nostro Paese si dota precocemente di istituzioni preposte a questa funzione. Il Consorzio per sovvenzioni su valori industriali diventa operativo già nel 1915 e da allora si dipanano tutta una serie di organismi, fino all’odierna Cassa depositi e prestiti.
Che cosa significa?
NICOLA ROSSI — Che è estranea all’Italia l’idea che le imprese debbano provare, rischiare, fallire e magari ritentare. Ma questo è l’elemento fondante di un’economia di mercato, la base della «distruzione creatrice» di cui parlava Joseph Schumpeter. Se lo si annulla, il mercato non funziona più come dovrebbe: esattamente ciò che successo in Italia, con l’eccezione del periodo tra la fine degli anni Quaranta e la metà degli anni Sessanta, non a caso quando è forte l’influenza di Einaudi.
E poi che succede?
NICOLA ROSSI — È interessante osservare che due Paesi europei prendono strade molto diverse. In Italia, a metà degli anni Sessanta, vengono abbandonati i valori di libertà economica che hanno portato al miracolo economico. In Germania al contrario quei riferimenti hanno continuato a informare la vita pubblica fino a oggi. Sotto questo aspetto Einaudi ha predicato nel deserto, perché il nostro Paese ha sempre rifiutato la simbiosi tra la libertà politica e quella economica.
Vogliamo approfondire il tema dell’influenza esercitata da Einaudi dopo la Seconda guerra mondiale. Con la sua attenzione ai conti pubblici fu un antesignano dell’austerità?
ROBERTO MARCHIONATTI — Direi di no. Nel 1945 Einaudi torna dall’esilio in Svizzera e diventa subito governatore della Banca d’Italia. Ha arricchito la sua analisi, ha dialogato con Keynes, è un personaggio molto più maturo che ha riconosciuto gli errori compiuti in passato nel valutare il fascismo. La sua immediata priorità è combattere l’inflazione, con il consenso di tutte le forze politiche. La situazione era drammatica. Il prodotto interno lordo italiano era ridotto quasi alla metà rispetto al 1939. Le infrastrutture erano distrutte. La disoccupazione era altissima, intorno al 25 per cento della forza lavoro. Le sperequazioni nella distribuzione del reddito erano anch’esse aumentate a dismisura. Le entrate dello Stato non arrivavano al 30 per cento delle uscite. Le riserve valutarie erano prosciugate.
Come si muove allora Einaudi?
ROBERTO MARCHIONATTI — Il primo compito che si dà è restituire stabilità alla moneta. Scarta l’idea di una rivalutazione forzata come quella effettuata negli anni Venti da Mussolini, che aveva aumentato la disoccupazione. Ma dichiara che occorre «porre un fermo allo scivolio della lira verso il nulla». Contrario al cambio della moneta, nel giugno 1947 s’insedia al ministero del Bilancio: in quella fase i prezzi aumentano circa del 100 per cento annuo. Ma da settembre l’inflazione comincia a calare vistosamente. Nel frattempo Einaudi ha reso operativa la riserva obbligatoria sui depositi, con una restrizione della liquidità delle banche. E ha alzato, ma di poco, i tassi d’interesse. C’è chi ha sostenuto che la stabilità monetaria sia stata ottenuta a spese della crescita, ma i dati più aggiornati smentiscono questa tesi.
La manovra attuata da Einaudi fu un successo?
ROBERTO MARCHIONATTI — Non vi fu recessione, il Pil e la produzione industriale continuarono ad aumentare. La disoccupazione scese in modo abbastanza sensibile. Il disavanzo della bilancia dei pagamenti si ridusse. Il deficit dello Stato inizialmente aumentò, ma poi calò nei mesi successivi. Nel 1949 il Pil supera il livello del 1939 e dal 1950 alla crisi petrolifera l’Italia cresce a un ritmo medio del 6 per cento annuo. Alla luce di questi dati il successo è innegabile: l’inflazione venne abbattuta senza sacrificare la crescita.
Tutto merito di Einaudi?
ROBERTO MARCHIONATTI — Suo e di altri personaggi importanti, come Donato Menichella, che gli subentra come governatore della Banca d’Italia, e Paolo Baffi. Adottano misure rapide e molto ben calibrate, che ripristinano la fiducia nel risparmio e rilanciano gli investimenti. Inoltre Einaudi si adopera per reinserire l’Italia nella cooperazione internazionale. Sostiene con forza l’adesione agli accordi di Bretton Woods, elogia il piano Marshall, riprende il suo discorso di molti anni prima sulla necessità dell’integrazione europea.
CLARA MATTEI — A mio avviso Einaudi si può considerare un antesignano dell’austerità. Partecipò alla Mont Pelerin Society, cenacolo degli economisti neoliberali, e fu tra i fondatori di quella corrente di pensiero. La sua presenza in un ruolo di primo piano dopo il 1945 dimostra la continuità di idee nella gestione dell’economia tra il periodo fascista e quello postfascista.
Ma in che cosa consiste l’austerità?
CLARA MATTEI — Al di là dei suoi connotati tecnici – risanamento del bilancio, lotta all’inflazione e così via —, si tratta di un progetto politico per eliminare alternative possibili al capitalismo. Perché le possibilità di superare il sistema attuale ci sono: bisogna ripensare la gestione collettiva della risorse, introdurre forme democratiche all’interno dei processi produttivi. L’austerità serve a escludere tali prospettive attraverso un trasferimento di risorse dalla classe lavoratrice ai ceti abbienti. Quindi tagli alla spesa sociale, tassazione regressiva che penalizza i redditi bassi, privatizzazioni, deregolamentazione del mercato del lavoro, incremento dei tassi d’interesse. La stessa lotta all’inflazione attraverso la stretta monetaria è ottima per i risparmiatori, in quanto aumenta la rendita del capitale, non lo è affatto per i salariati, perché induce un raffreddamento dell’economia che fa aumentare la disoccupazione.
L’opera di Einaudi è in linea con questo approccio?
CLARA MATTEI — In lui c’è un’assoluta coerenza. Sposa l’austerità dopo il 1918 e conferma la sua scelta nel secondo dopoguerra. Di fronte alla richiesta di una partecipazione popolare alle decisioni economiche, la gestione del sistema viene affidata agli esperti che perseguono la stabilità a tutti i costi, in particolare a scapito delle classi lavoratrici.
NICOLA ROSSI — Se l’austerità significa generazione di avanzi primari per la riduzione del debito pubblico, l’Italia non ha mai conosciuto nulla di simile. Abbiamo avuto un debito superiore a quello degli altri Paesi occidentali in tutto il periodo della nostra storia unitaria, con un alto livello di tassazione e di spesa pubblica.
Ma nel secondo dopoguerra Einaudi non attuò una politica di bilancio rigorosa?
NICOLA ROSSI — Lui e Alcide De Gasperi capiscono che l’Italia, ridotta in condizioni miserevoli, può risollevarsi soltanto appoggiandosi sulla voglia di riscatto e sulla capacità d’iniziativa degli individui. Un’attenta disciplina di bilancio è dunque la maniera per lasciare spazio all’economia privata. Ma bisogna sottolineare che proprio in quel periodo le spese per l’istruzione triplicano, mentre si riducono le sovvenzioni alle imprese. Vengono inoltre ridotte le imposte «etiche», sugli alcolici e i tabacchi, che tra altro sono fortemente regressive.
Quale fu il risultato?
NICOLA ROSSI — Innanzitutto in quel periodo si registra un turn over lordo d’imprese (un numero di aziende che nascono e muoiono) largamente superiore alle fasi precedenti e successive. Si entra e si esce dal mercato facilmente. Ed è allora che nascono una serie di attività fiorenti, con innovazioni le cui conseguenze hanno prodotto le imprese leader dell’economia italiana: Autogrill, Nutella, Brembo, Lamborghini e molte altre. Certamente il contesto internazionale aiutò, ma è l’unica fase della storia d’Italia in cui si osservano tassi di crescita della produttività, del prodotto pro capite e della capacità brevettuale superiori a quelli degli altri Paesi occidentali. Poi si arriva alla metà degli anni Sessanta e, con l’intento di correggere gli squilibri dello sviluppo, su quella politica viene posta una pietra tombale.