La Lettura, 3 marzo 2024
Biografia di John Williams
Fa bene Francesco Pacifico, nella sua appassionata e intelligente introduzione al Meridiano delle Opere di John Williams, a prendere subito il toro per le corna. Ogni volta che si parla dello scrittore texano o si riprende in mano un suo libro, infatti, riesce difficile aggirare il mistero della scarsa considerazione di cui ha goduto in vita questo supremo, rigoroso artista della penna, oggi considerato tra i maggiori scrittori americani del secondo Novecento. Davvero fu possibile, nel 1965, che passasse quasi inosservato un romanzo come Stoner, con tutti i suoi pregi che a noi lettori postumi sembrano così evidenti? È pur vero che la letteratura ha sempre prodotto questo tipo di congegni a orologeria, destinati a lunghe latenze prima di trovare la generazione giusta di lettori. Il caso di Stoner ha qualche analogia con quello di un altro libro straordinario, Revolutionary Road di Richard Yates, pubblicato nel 1961 e scoperto dalla critica e dal grande pubblico solo all’inizio del nuovo millennio. Andando un po’ indietro nel tempo, possiamo menzionare la riscoperta di John Fante, e notare anche come un ruolo importante, in queste resurrezioni di grandi americani, lo abbiano svolto traduttori ed editori europei (per quello che riguarda specificamente Stoner, il punto di svolta è stata la traduzione francese del 2011).
È pur vero che questo schema riguarda addirittura il testo fondativo della tradizione americana, quel Moby-Dick che, pubblicato nel 1851, ebbe bisogno di una settantina d’anni per entrare stabilmente nel canone delle grandi opere dell’umanità. Se si tratta di storie consolanti, non lo sono certo per i diretti interessati, che avrebbero preferito godersi in vita i frutti del loro talento, com’è naturale. Semmai, quello che è davvero rincuorante in queste vicende è la possibilità di verificare la tenacia della memoria umana, anche quando i suoi fili si assottigliano fin quasi a scomparire.
Il caso particolare di John Williams, poi, così come lo ricostruisce Pacifico, è interessante anche perché ci ricorda come l’opera di certi artisti finisca per configurarsi, agli occhi dei loro contemporanei, come uno sconcertante, quasi scandaloso anacronismo. Con un’efficace semplificazione, Pacifico contrappone all’eroe più celebre di Williams, Bill Stoner, il Moses E. Herzog di Saul Bellow. È una dicotomia ideale: entrambi i romanzi (Herzog è del 1964, Stoner lo segue di un anno) derivano il titolo dal nome del protagonista, che in entrambi i casi è un intellettuale, un ricercatore universitario. Ma fin dal famoso incipit («Se sono matto, per me va benissimo») l’antieroe di Bellow si rivela un degno figlio del suo tempo, che è quello dell’erompere di una soggettività nevrotica e manipolatoria più forte, nella sua sostanziale arbitrarietà, di ogni verifica oggettiva. Lo stesso disordine erotico ed esistenziale di Herzog è una forma credibile del mondo, perché il mondo non è che disordine e interpretazione personale, e l’errore è l’unico metodo residuo per abitarlo. E in questo grande solco modernista si muovono tutti, si può dire, i grandi narratori del secondo Novecento americano, almeno fino al mesto epilogo minimalista.
Williams è tutt’altro che un ingenuo, e conosce bene i veleni irrazionalistici e superomistici del suo tempo. Ma la sua idea di cosa debba essere un romanzo è talmente inattuale da poter essere facilmente scambiata per una posizione conservatrice, o provinciale, o dilettantesca. È molto interessante leggere la sua vita tutt’altro che felice così come la racconta Charles J. Shields, massimo biografo dello scrittore, nella Cronologia che arricchisce questa edizione delle Opere. Perché dal punto di vista dello stile di vita Williams era molto più simile a un personaggio di Bellow o addirittura al Mickey Sabbath di Philip Roth di quanto lo fossero i protagonisti dei suoi libri. Morto nel 1994 a settantadue anni, Williams era insomma una perfetta incarnazione dell’artista novecentesco in perenne e autodistruttivo conflitto con il mondo e con sé stesso. Con tutto il corredo di aneddoti pittoreschi o drammatici che abitualmente si accompagna a tale condizione, tra dipendenza dall’alcol e immedicabili rovelli interiori. Ma i suoi romanzi, e soprattutto i due capolavori (accanto a Stoner va sempre ricordato l’altrettanto perfetto Butcher’s Crossing, un western ambientato sulle montagne del Colorado pubblicato nel 1960) parlano una lingua totalmente diversa, tanto da far pensare a un principio apollineo, fondato sul distacco, sulla padronanza del mezzo, sulla chiarezza della visione. Sono le virtù evidenti di cui in tanti hanno fatto esperienza leggendo l’ormai proverbiale conclusione di Stoner, con la sensazione che emana di pura e inequivocabile grandezza letteraria, degna del paragone con certi finali di Conrad o dei maestri russi.
Ma quello che più convince in Williams non è la serena classicità dello stile, che in sé e per sé potrebbe anche rivelarsi una forma tra le tante di sterile manierismo. Semmai, in libri come Butcher’s Crossing e Stoner a destare ammirazione è la totale congruenza fra le scelte espressive e i contenuti dell’indagine morale e filosofica che si accompagna alla storia e ne costituisce il significato più profondo.
I personaggi di Williams sono come fogli bianchi sui quali l’esperienza scrive le sue leggi inesorabili. Sia Will Andrews di Butcher’s Crossing, il ragazzo di città che si trasforma in cacciatore di bufali inseguendo quella Natura di cui tanto ha letto nei libri, che Bill Stoner, il figlio di contadini del Missouri convertito alla letteratura da un sonetto di Shakespeare, procedono con fatica verso il punto di massima consapevolezza di sé e del mondo che gli è dato ottenere percorrendo una strada irta di abbagli e disinganni. Che possieda un senso oppure no, non possono sottrarsi all’obbligo di vivere la loro vita, procedendo verso una sintesi possibile della libertà e della necessità.
In un saggio memorabile su Proust, Gilles Deleuze scrisse che il vero argomento della Ricerca del tempo perduto non è né il tempo né la memoria, bensì l’«apprendistato», e anche quelle di Williams sono fondamentalmente storie di apprendistato, come se vivere fosse imparare una lingua straniera che trasforma nel tempo i significati dei suoi segni. Ne scaturisce un’idea di saggezza di sapore decisamente classico e stoico. È proprio questo il cuore pulsante dell’umanesimo di Williams: che poté certamente sembrare una visione arrivata fuori tempo massimo, perché era fondata su una totale e convinta accettazione della realtà e delle arcane leggi naturali che la governano e alle quali nessun Herzog può efficacemente ribellarsi. E se è vero che l’insuccesso di questo grande scrittore ci spiega, per contrasto, molte cose sui suoi tempi, la sua attuale popolarità ha da dirci qualcosa sui nostri.
Nei trent’anni esatti che ci separano dalla morte di Williams, indubbiamente la letteratura ha perso molto della sua centralità all’interno dei saperi umani. Ma la riscoperta di Stoner è significativa perché ci parla di un desiderio di orientamento, di un’interrogazione sul proprio posto nel mondo che sono esigenze spirituali impossibili da sopprimere. Le strade dei libri possono essere tortuose e imprevedibili, ma il loro sopravvivere e riaffiorare non è mai un puro e semplice frutto del caso. Libri come Butcher’s Crossing e Stoner sono come farmaci, e leggerli equivale a un esercizio filosofico. Anche se non corrispondono esattamente ai nostri gusti, hanno il raro e impagabile potere di condurci in vista dell’essenziale.