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 2024  marzo 03 Domenica calendario

Un nuovo cibo sudcoreano: riso e carne insieme

L’attuale situazione del pianeta Terra è stata valutata tre anni fa da un gruppo di esperti coordinati da sir Partha Dasgupta (vedi «la Lettura» #483 del 28 febbraio 2021): ne risulta una diagnosi di catastrofe ambientale, sociale, economica, sanitaria, per la quale avremmo bisogno di circa due pianeti Terra (1,6) per continuare con i nostri attuali stili di vita. La causa, come previsto dagli esperti del Club di Roma 50 anni orsono e ribadito più di recente (inascoltati), è la crescita economica senza limiti (Club di Roma, Pik, Planetary Emergency Plan, 2019). E così il pianeta Terra è entrato in una nuova era geologica (Antropocene, Plasticene) caratterizzata da crisi ambientale (sanitaria) e alimentare (energetica). Abbiamo raggiunto un punto di non ritorno con una devastante impronta ambientale dell’uomo dovuta all’incremento numerico della popolazione (e all’utilizzo smodato dei combustibili fossili), con le conseguenti necessità alimentari. È come se la Terra soffrisse di una malattia a causa dell’attività umana. Un fatto già anticipato da Friedrich Nietzsche: la Terra è bellissima, ma soffre di una malattia chiamata uomo (Così parlò Zarathustra, proemio del terzo paragrafo).
Ai biologi è sempre sorto il dubbio che questa situazione sia dovuta a un malinteso, cioè l’aver preso alla lettera le parole della Genesi (1, 26): «Poi Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, conforme alla nostra somiglianza, e abbia dominio sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutta la terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”». Concetto ribadito in Genesi 1, 28: «Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”».
Visto l’incremento numerico della popolazione, tra pochi anni saremo 10 miliardi, pare che l’uomo anziché intendere quell’«andate e moltiplicatevi» nella fede, lo abbia inteso come «andate e moltiplicatevi» nel sesso riproduttivo. E anche l’invito a relazionarsi con i viventi è stato mal interpretato: preso alla lettera, come un invito a padroneggiare, a «imporsi» sugli animali e sui vegetali (si leggano a questo proposito le considerazione di Francesco Remotti nel libro Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi). E così, distruzione di ambienti, foreste, oceani, specie animali e vegetali che scompaiono prima di essere scoperte. Un’«imposizione» dell’uomo sulla natura e non un invito alla sua cura come ben suggerisce papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’. Sulla cura della casa comune.

Per evitare una crisi alimentare universale e altre pandemie è doverosa dunque una riflessione radicale sulla nostra quotidianità e in particolare su come produciamo il cibo che consumiamo (e sprechiamo). A nostro modo di vedere l’unica soluzione per smentire Nietzsche (e chiarire i fraintendimenti sulla Genesi) è quella di dotarsi di un galateo ecologico per desiderare e costruire uno sviluppo sostenibile che leghi l’interesse immediato a una prospettiva futura e le scelte personali a un destino universale. Impresa non semplice di certo e che richiede di trovare un compromesso, che è sempre segno di grande intelligenza adattativa/evolutiva, fra tre evidenti necessità: a) ridurre drasticamente l’impronta ecologica degli attuali sistemi di produzione di proteine animali; b) avviare un processo graduale di sostituzione di questi processi produttivi; c) salvaguardare il lavoro dei milioni di cittadini coinvolti, accompagnandone la riqualificazione.
Uno dei cardini di un simile scenario di sviluppo sostenibile diviene la produzione di nuovi cibi. Per nostra fortuna l’avanzamento delle conoscenze della scienza della produzione alimentare ha fatto passi da gigante dallo sviluppo della carne in scatola, inventata da Nicolas Appert per alimentare i soldati napoleonici nel corso della campagna di Russia e adottata da Bryan Donkin per la marina inglese. Su sollecitazione della società civile, sempre più cosciente della crisi ambientale e delle sue cause, i biologi continuano a elaborare sistemi alternativi ai catastrofici allevamenti intensivi per la produzione di proteine animali.
L’ultima proposta è di un gruppo sudcoreano, che ha prodotto un cibo ibrido integrando cellule animali ai chicchi di riso: il risultato è un «cibo completo» (poiché il riso è essenzialmente composto di carboidrati con proteine, grasso, vitamine, fosforo, calcio e magnesio), che può superare alcune problematiche incontrate dalle ultime novità apparse (carne coltivata, insetti, alghe, Ogm in generale) quali i limiti e i divieti alla produzione e al commercio, costo eccessivo, sbilanciamento nutrizionale, gusti non familiari ai consumatori. Il riso offre ulteriori benefici nutrizionali perché ricco di ingredienti funzionali come la gluteina e l’acido folico (che giocano un ruolo cruciale nel regolare il metabolismo delle cellule dei muscoli) e il selenio (regolatore del ciclo cellulare).
Per capire e apprezzare la proposta odierna del cibo ibrido è utile ricordare quali sono le novità alimentari comparse da ultimo e delle quali soltanto pochi Paesi – Singapore, Israele e Stati Uniti – accettano la produzione e il consumo.
L’allevamento intensivo, circa 70 miliardi di animali terrestri e circa 130 miliardi di animali acquatici, è attualmente del tutto focalizzato sull’aumento della produzione di proteine animali. L’allevamento degli animali per la produzione di cibo può essere riformulato in base ai principi delle 3R, individuati da William Russell e Rex Burch nel 1959: Replacement, Reduction, Refinement. La «sostituzione» (replacement) può essere attuata con la produzione di proteine vegetali o carne coltivata. La «riduzione» (reduction) si può realizzare mantenendo solo gli animali di allevamento che si cibano di risorse che l’uomo non utilizza direttamente (ad esempio allevando ruminanti sui suoli non arabili). Il «miglioramento» (refinement) deve significare non solo evitare di infliggere sofferenze agli animali, ma anche assicurare loro buone condizioni di vita. Ad oggi gli sforzi più praticati sono quelli legati al miglioramento delle condizioni di allevamento, mentre sono le pratiche (politiche) di sostituzione e riduzione degli allevamenti intensivi quelle che hanno la capacità di assicurare un rilevante beneficio per la salute dell’ambiente e per combattere la fame nel mondo.

Sulle pagine de «la Lettura» #371 (6 gennaio 2019) abbiamo già ricordato come sia possibile la produzione di proteine animali da staminali coltivate in massa in «biofattorie di colture di cellule animali» (vedi anche Fondazione Umberto Veronesi, Parere agricoltura cellulare, 2019) ottenendo carne e burgers in laboratorio, i cosiddetti «eco-friendly burger». In alternativa è sempre possibile divenire entomofagi: come abbiamo imparato a cibarci di spaghetti dai cinesi, di pomodori dai sudamericani e di risotto dagli arabi, mangeremo insetti che sono la fonte più completa di proteine, la più abbondante e rinnovabile del pianeta (ne abbiamo scritto su «la Lettura» #589 del 12 marzo 2023). O ancora, in un futuro non lontano, la carne sarà prodotta dall’aria basandosi sulla capacità di elaborare proteine dai microorganismi idrogenotrofi: potremo vivere d’aria come sostengono i biotecnologi dell’Air Protein e della Finland Solar Foods (vedi «la Lettura» #422 del 29 dicembre 2019).
Dinnanzi a questa proposta dalle connotazioni bibliche la novità viene dai biotecnologi dell’Università di Yonsei (Repubblica di Corea), che hanno utilizzato del comune riso come supporto di cellule muscolari bovine, con l’aggiunta di cellule del grasso, per produrre «carneriso» (meat-rice). Il prodotto finale è un cibo ibrido, una sorta di «nocciolato» combo tra i due alimenti che può poi essere cucinato come un qualsivoglia riso (risotto). La scelta del riso quale supporto è dettata dal fatto che è il prodotto alimentare più consumato a livello mondiale, meno allergenico rispetto a soia e nocciole (che pure potrebbero essere impiegate) e connotato da una forte accettazione psicologica, poiché non soffre di alcun divieto pregiudiziale ideologico/religioso che inficerebbe la diffusione del combo risocarne.
Il cibo ibrido prodotto ricorda, sostengono i ricercatori, i piccoli sushi di manzo. Il lavoro ora pubblicato (Sohyeon Park e altri, Rice grains integrated with animal cells: A shortcut to a sustainable food system, «Matter» 7:1-22, 2024) è stato finanziato dal programma di sviluppo bio-medicale del ministero dell’Industria e commercio e del ministero dell’Energia della Repubblica di Corea. È speranza dei biologi sudcoreani che questo risocarne possa essere accettato ed entrare nei programmi di aiuto per le popolazioni che soffrono insicurezza alimentare (centinaia di milioni di persone), per l’alimentazione di astronauti e ancor di più per tutte le truppe che combattono guerre di trincea.
Non è stato semplice elaborare le condizioni di produzione ora pubblicate poiché, come ricorda Sohyeon Park (dipartimento di Chimica e Ingegneria biomolecolare dell’Università di Yonsei, Seul), inizialmente le cellule animali aderivano scarsamente alle fessure porose dei chicchi di riso. L’ostacolo è stato superato con il rivestimento del riso con comuni additivi alimentari (gelatina di pesce e una transglutaminasi microbica capaci di aumentare l’adesività delle cellule) e lasciandolo poi per una settimana nelle colture cellulari; si è così ottenuto il desiderato combo risocarne.

Lavato e cucinato in umido a mò di risotto, la dottoressa Park lo ha mangiato con soddisfazione dichiarando che risulta più duro del riso convenzionale con la sensazione di masticare un prodotto «nocciolato». Il profilo nutrizionale risulta solo leggermente più ricco di proteine animali (9%) e di grassi (7%): mangiare 100 grammi di questo combo equivale a mangiare 100 grammi di comune riso e un cucchiaino da caffè di carne. Va precisato che i biotecnologi vegetali stanno collaborando per aumentare le dimensioni dei chicchi del riso.
Perché sia commercializzato e utile a contrastare l’insicurezza alimentare è bene che il prezzo risulti inferiore a quello del riso comune (ad oggi è paragonabile: un chilo costa 2,23 dollari contro i 2.20 del riso comune) e sarà dunque necessario sviluppare processi industriali in tal senso; auguriamoci che l’Europa sia capace di dare un contributo. La produzione di questo combo ha il vantaggio di comportare bassissime emissioni di gas serra, quindi può rassicurare il consumatore circa la buona azione compiuta nei confronti del pianeta, mentre si va elaborando la difficile sfida socio-economica della riduzione degli allevamenti intensivi, una necessità sempre meno rinviabile.