La Lettura, 3 marzo 2024
Il terzo incomodo nel genere Homo
Un’umanità alternativa abitava vallate e praterie dell’Eurasia centrale e orientale. Non erano Homo sapiens. Non erano Neanderthal. Non sappiamo quasi nulla del loro aspetto, ma siamo certi che una parte di loro ha lasciato tracce di sé nel nostro Dna. Sembra l’inizio di un racconto di fantascienza evoluzionistica e invece è una storia vera che la scienza da una dozzina d’anni ha iniziato a raccontarci.
C’era un terzo incomodo, ancora oggi in gran parte misterioso, tra noi e i cugini Neanderthal. Era il 2010 quando un team di antropologi molecolari del Max Planck Institute di Lipsia estrasse e mise in fila il Dna contenuto nel frammento di un mignolo trovato in Russia nella grotta di Denisova, sui Monti Altai, una regione cardine dell’Eurasia che da sempre separa, da una parte, le steppe orientali che si spingono fino alla Cina e, dall’altra, le steppe ponto-caspiche a occidente. In quella regione piena di risorse sappiamo che i Neanderthal, originatisi in Europa, erano arrivati già prima di 100 mila anni fa. Tempo dopo, giunsero dall’Africa e dal Medio Oriente anche i primi pionieri della nostra specie, Homo sapiens. Le aspettative dei ricercatori erano di trovare in quel mignolo – che apparteneva a una giovane donna di 14 anni e la cui datazione era compresa tra 63 e 55 millenni fa – il materiale genetico tipicamente neanderthaliano oppure il nostro.
Nulla di tutto ciò. In questo caso, tertium datur. La sequenza del Dna mitocondriale rivelò che nella grotta di Denisova abitava una specie umana diversa, mai scoperta prima, che viveva nello stesso periodo e negli stessi territori della Siberia meridionale insieme ai Neanderthal e a Homo sapiens, mentre nel frattempo in Indonesia sopravvivevano gli ultimi Homo erectus a Giava e le due specie pigmee isolane Homo floresiensis e Homo luzonensis. Tirando le somme, ben sei specie umane ancora coabitavano sulla Terra fino a poche decine di millenni fa. Non eravamo soli. L’evoluzione umana è una storia al plurale.
Un Dna mitocondriale non basta per dare un nuovo nome di specie e dunque nel 2010 si decise di chiamare questa elusiva popolazione umana semplicemente Denisova o denisovani. Poco dopo fu pubblicata anche la sequenza ben conservata del Dna nucleare, che permise di comprendere che i Denisova erano molto vicini ai Neanderthal nell’albero filogenetico del genere Homo (in pratica, erano una specie sorella dei Neanderthal, seppur distinta, con un antenato comune tra le due vissuto fra 440 e 390 mila anni fa) e che, sorprendentemente, le popolazioni melanesiane attuali condividevano alcuni tratti di Dna con i denisovani, segno che le popolazioni di Homo sapiens antenate dei popoli del Pacifico li avevano incontrati e si erano mescolate con loro, generando figli ibridi e sani.
Quindi non solo c’era un terzo incomodo tra noi e i Neanderthal, ma le ibridazioni tra le specie umane furono molteplici. In tutte le popolazioni umane attuali fuori dall’Africa ci sono tracce genetiche neanderthaliane, il che significa che gli antenati di coloro che uscirono dal nostro continente di origine si accoppiarono con i Neanderthal in Medio Oriente e in Eurasia centrale e occidentale.
Le conseguenze di questi incontri, che risalgono a 70 mila e 50 mila anni, fa sono che ancora oggi dall’1 al 4 per cento del Dna di ciascuno di noi è stato ereditato dai Neanderthal. Tutto questo ha certamente risvolti positivi: dai Neanderthal abbiamo preso geni capaci di difenderci da batteri e virus che l’Homo sapiens non aveva mai incontrato prima, e altri geni, quelli che ci proteggono la cute dal perdere acqua, per esempio, e quelli che consentivano ai nostri antenati di avere più peli per proteggersi dal freddo e di sintetizzare abbastanza vitamina D anche a chi ha la pelle bianca.
Ma c’è il rovescio della medaglia: da Neanderthal abbiamo ereditato anche la predisposizione al diabete, si tratta per lo più di geni che prevengono la degradazione dei grassi: a Neanderthal servivano come fonte di energia, a noi oggi proprio non servono. E se qualcuno di noi muore d’infarto lo si deve un po’ anche ai geni di Neanderthal, persino schizofrenia e malattie autoimmuni potrebbero venire dal Dna arcaico ed è appena stato pubblicato un lavoro su Nature che dimostra come regioni geniche che derivano da Neanderthal possano favorire l’insorgenza di malattie autoimmuni come lupus eritematoso sistemico, cirrosi biliare e colite ulcerosa.
Ma c’è di più: uno studio condotto in provincia di Bergamo nelle aree più colpite dall’infezione da Covid-19 suggerirebbe che geni che derivano dai Neanderthal possano spiegare come mai certi individui hanno manifestazioni così gravi di malattia da richiedere ospedalizzazione o addirittura cure intensive, mentre in altri la malattia ha un decorso molto più benigno. Attenzione però: questo studio è stato possibile nell’area attorno a Bergamo dato il numero elevato di infezioni, ma non spiega perché a Bergamo morirono così tante persone rispetto ad altre parti d’Italia e d’Europa. Che ci potesse essere una predisposizione genetica alla malattia grave i ricercatori lo sospettarono subito dato che gravità del Covid-19 e morti tante volte si riscontravano in membri della stessa famiglia. Lo studio che è partito dall’analisi di 10 mila persone ha potuto identificare i geni associati alle manifestazioni di insufficienza respiratoria severa. Tre di questi geni appartengono a variazioni del Dna (aplotipo) che ci vengono dai Neanderthal; chi era portatore di quell’aplotipo aveva il doppio di possibilità di sviluppare polmonite severa se si ammalava di Covid rispetto a chi non portava quell’aplotipo, non solo, ma aveva più di tre volte la probabilità di essere ricoverato in terapia intensiva e avere bisogno di ventilazione meccanica.
A questo punto lasciamo i Neanderthal e torniamo ai Denisova.
Nel 2018 fu analizzato un piccolo frammento di osso – appartenuto a una donna (Denny) che aveva abitato la grotta di Denisova fra 118 e 79 millenni fa – il cui Dna era compatibile con un padre denisovano (a sua volta con ascendenti neanderthaliani) e una madre neanderthaliana. Era la prima volta che si scopriva il genoma di un individuo ibrido di prima generazione, cioè con un padre e una madre appartenenti a due specie umane diverse. Questo fece supporre che le ibridazioni e le «unioni miste» fossero del tutto normali in quella regione e che i frutti degli accoppiamenti venissero accolti nelle loro comunità.
Infine, arrivò la scoperta di sequenze denisovane (intorno al 3-4% del Dna) nei melanesiani di Papua Nuova Guinea e dell’isola di Bougainville. Oggi sappiamo che quasi tutte le popolazioni native dell’Oceania e del Sudest asiatico conservano tracce genetiche denisovane variabili, con un picco nei negritos delle Filippine. I mescolamenti potrebbero essere avvenuti nel Sudest asiatico, in una o più occasioni tra 54 e 44 millenni fa, prima della migrazione di queste popolazioni di Homo sapiens verso l’Oceano Pacifico. Sequenze denisovane fanno capolino qua e là pure in Asia centrale, in un individuo della nostra specie scoperto nella grotta di Tianyuan in Cina e in un altro della valle di Salkhit in Mongolia nordorientale. Anche i nativi americani hanno un debole segnale di passate ibridazioni con i denisovani e persino gli europei (che forse lo hanno ereditato dai Neanderthal o dai sapiens che si erano a loro volta ibridati con i denisovani in Asia). Quindi le ibridazioni furono triangolari: fra Homo sapiens e Neanderthal; fra Neanderthal e Denisova; e fra Denisova e Homo sapiens.
Poiché sappiamo che le specie biologiche si definiscono come popolazioni di organismi che si accoppiano solo fra loro, qualcuno ha iniziato a mettere in dubbio l’applicazione di questa nozione alle specie umane recenti del genere Homo. Forse i Neanderthal e i Denisovani non si sono tecnicamente «estinti», ma si sono fusi dentro la nostra discendenza e li abbiamo inglobati. In realtà, l’esigua percentuale di Dna residuo e la sua frammentazione smentiscono questa ipotesi.
In pratica i segmenti di Dna denisovani hanno una frequenza allelica piuttosto bassa nelle popolazioni odierne, ma alcuni frammenti sono molto conservati e questo farebbe pensare che siano stati selezionati positivamente nel tempo in quanto offrivano un vantaggio rispetto agli stessi segmenti con le varianti di Homo sapiens (l’esempio, che vedremo fra poco, della popolazione tibetana che si adatta alla mancanza di ossigeno è illuminante). Questo fenomeno si chiama introgressione adattativa. Per individuare questi frammenti si deve valutare se siano presenti in una data popolazione con una frequenza più elevata dell’atteso in base alla storia evolutiva di quella popolazione.
Le formule e i test che si usano sono molto complessi e ve li risparmiamo volentieri. Volendo semplificare si potrebbe dire che si tratta di valutare se nel Dna di una data popolazione oggetto di studio ci siano con una frequenza stabilita a priori di varianti presenti invece con una frequenza elevata nel Dna arcaico di cui si cerca l’introgressione (Denisovano-Neanderthaliano), ma che non sono presenti o lo sono con bassissima frequenza nel Dna dell’antenato che non si è incrociato con i Denisovani e Neanderthaliani (per esempio nel Dna africano non incrociato con Neanderthal). Candidati per introgressione adattativa sono regioni di Dna che contengono un elevato numero di alleli (varianti) arcaici. Senza che ci addentriamo nei meandri statistici della genetica di popolazione, possiamo dire che con certe formule matematiche si possono per esempio cercare introgressioni adattative denisovane nella popolazione oceanica. Come? Cercando alleli che siano presenti nella popolazione oceanica con una determinata frequenza pre-stabilita e che abbiano invece una frequenza molto bassa negli africani, che non si trovino mai nel Dna di Neanderthal e che si trovino invece nel Dna di Denisova.
Inoltre, in zoologia accade di frequente (tra i felini, gli uccelli e altri gruppi) che due specie, ancorché distinte perché nate in due periodi e regioni differenti, possano ibridarsi occasionalmente quando i loro territori vengono a sovrapporsi a causa di cambiamenti climatici e migrazioni.
Ma quale fu la storia dei Denisova? Intorno a 400 mila anni fa si separarono dai Neanderthal, a occidente, e occuparono l’Eurasia orientale. Tra 250 e 170 mila anni fa di sicuro già frequentavano la grotta sui monti Altai che ha dato loro il nome (nella quale nel frattempo sono stati scoperti altri otto frammenti a loro appartenuti). Tra 120 e 97 millenni fa cedettero la grotta ai Neanderthal, per poi riprendersela. Una mandibola denisovana, risalente a 160 mila anni fa, è stata trovata nella grotta di Baishiya Karst, in Tibet, dove i Denisova rimasero forse fino a 42 millenni fa, a più di 3 mila metri d’altitudine. Quindi l’occupazione denisovana fu lunga, ben oltre il tempo di arrivo di Homo sapiens su quelle montagne. Lo testimonia anche il fatto che l’80% della popolazione tibetana di oggi ha ereditato dai denisovani, intorno a 48 millenni fa, una variante del gene Epas1 che favorisce l’adattamento alla mancanza di ossigeno in altitudine. Ibridarsi può fare bene.
Mancano ancora le conferme molecolari, ma dalle analisi morfologiche e biogeografiche pare probabile che siano denisovani anche resti rinvenuti nei siti di Tam Ngu Hao in Laos, di Penghu nello stretto taiwanese, di Narmada in India, di Maba, Xujiayao, Xuchang 1 e 2, Jinniushan e Harbin in Cina. Quindi i denisovani avevano raggiunto una vasta distribuzione geografica in Asia orientale. Vivevano in gruppi di circa cento individui.
Ma com’erano fatti? La documentazione paleontologica è così scarsa da non permettere alcuna ricostruzione morfologica diretta. Ci rimangono di loro: una falange, mezza mandibola, un pezzo di osso lungo, una minima porzione di osso parietale del cranio, una manciata di altri piccoli frammenti non riconoscibili e cinque molari, la cui larghezza lascia supporre che fosse una specie robusta. In effetti, abbiamo la sequenza intera di un solo individuo e da quella non è facile dedurre i tratti del fenotipo di una specie intera. Il genoma denisovano è peraltro fortemente influenzato dalla deriva genetica, quindi è probabile che le varie popolazioni isolate presentassero una notevole diversità morfologica. Detto ciò, è abbastanza probabile che assomigliassero alla loro specie sorella, i Neanderthal, ma non sappiamo nulla della loro cultura, dei loro comportamenti, della loro società.
Fra 76 e 52 millenni fa, i Denisova ancora si aggiravano per i Monti Altai. Dal plateau tibetano sparirono una decina di millenni dopo, nello stesso periodo in cui nel Sudest asiatico ancora si ibridavano con popolazioni di Homo sapiens. Superata la soglia dei 40 millenni fa, come per i Neanderthal, sembrano svanire nel nulla. Uno studio genetico del 2021 sulla presenza di Dna denisovano in venti popolazioni della regione pacifica sembra tuttavia ventilare la possibilità sorprendente che gruppi residui di Denisova potrebbero essere sopravvissuti in Nuova Guinea fino a 25 mila anni fa. Dunque questa specie umana misteriosa potrebbe avere vissuto in contesti ecologici tanto diversi quanto i Monti Altai, il plateau tibetano e la foresta pluviale papuana.
Poi si estinse, insieme alle altre specie umane, e rimanemmo solo noi, ultimo ramoscello del genere Homo. Dicevamo all’inizio che a conti fatti sei specie umane vivevano insieme sulla Terra, prima che Homo sapiens diventasse così invasivo e prepotente da non lasciare più spazio per nessun altro umano. Ma la casualità della scoperta di Denisova lascia intendere che chissà quali e quante altre specie umane ancora mancano all’appello. Per esempio, dalle analisi molecolari continua a emergere un segnale genetico connesso a una potenziale specie umana molto arcaica e divergente, di cui non si sa nulla, un fantasma perso nella notte dei tempi. Ora siamo in grado di estrarre Dna umano non soltanto dalle ossa fossilizzate, ma anche dai sedimenti nelle grotte. Molti scommettono che da questo «Dna ambientale» verranno presto altre grandi sorprese, e forse qualche spiraglio di luce in più sui tanti segreti che ancora avvolgono gli elusivi denisovani.