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 2024  marzo 06 Mercoledì calendario

Cuori, fegati e milze: il “museo” della morte che celebra la vita


Hic est locus ubi mors gaudet succurrere vitae (“Questo è il luogo dove la morte è lieta di dare soccorso alla vita”)
Il teatro anatomico dell’Università di Padova è il luogo più antico al mondo in cui la morte celebra a suo modo la vita.
“Era il 1594 e qui già si iniziavano a studiare le cause, si tentava di approfondire la ricerca, si esponevano le tesi del decesso per rendere, ed è storia dei secoli successivi, più accessibili le strade che avrebbero sostenuto i sopravvissuti alla vita”. Cristina Basso raccoglie, referta, indaga apprezza, valuta i cuori che si fermano troppo presto, che interrompono quando non dovrebbero la corsa dei ragazzi verso la vita. Questo cuore, per esempio, sembra una mela tagliata, ma linda, pulita, con linee marcate e sviluppi decisi. Nulla a che vedere con le caverne del polmone di un poveretto morto di tbc, quando la tubercolosi, fino alla metà del secolo scorso, uccideva e basta. Nell’universo dell’organo difettato sono incolonnate le disgrazie umane: la cifosi enorme e maligna di un adulto, le due teste accoppiate di gemelli nati e poi subito scomparsi. Questo anello dell’imperfezione umana diviene visione neutrale grazie alle spiegazioni del medico che guida, il mio Caronte: ecco un cervello invaso da una cruenta emorragia. Come quelle chiazze di petrolio che insozzano il mare e poi lo uccidono.
Basso insegna all’Università di Padova Anatomia e studia soprattutto le patologie cardiovascolari, gestisce il registro delle morti improvvise. “150 tra bambini e ragazzi in Italia se ne vanno ogni anno senza un perché, e noi illuminiamo, per quel che possiamo e sappiamo, il buio del mistero”. Mille sono i cuori giovani qui conservati e altri duemila i cuori adulti, quelli che hanno dato forfait al termine dell’ultimo slargo o con qualche imprevisto anticipo rispetto al fischio finale.
Padova è un grande hub dei trapianti, fondato grazie alla mano del cardiochirurgo Vincenzo Gallucci che nel 1985 effettuò il primo trapianto in Italia a Ilario Lazzari. E Lazzari come tanti suoi colleghi che hanno avuto la vita donata da altri cuori, spesso vengono qui a trovare il loro pezzo fallato.
“Qui non c’è l’uomo, ma parti del nostro corpo che intanto trasfigura. È un dono importante che la scienza mette a disposizione”. Maria Conforti, storica della medicina alla Sapienza, condivide il senso scientifico di questa raccolta. Il museo romano, chiamiamolo così, è all’Umberto I, piano meno uno, istituto di Anatomia Patologica. “Ecco, vede questa ulcera? Questo è un ictus per esempio, e questo, che appare un serpente con mille squame, un intestino malformato. Gli organi così lontani dalla norma ci servono a documentare persino le eccentricità delle malattie, a studiarle naturalmente per avere in mano più frecce al nostro arco”.
Cira Di Gioia, anatomopatologa del grande universo romano, scandisce fremente le qualità del soccorso della morte nei confronti della vita. “Noi abbiamo questa enorme responsabilità e l’abbiamo sia quando l’ammalato attende una cura, e quindi le nostre analisi e valutazioni devono consentire all’oncologo gli elementi favorevoli o sfavorevoli a quella determinata terapia; sia quando il corpo è invece finito, è hortus conclusus, e quell’organo, milza, rene, femore, vescica, che ha provocato la morte, viene da noi censito per le peculiarità patologiche”.
Tremila cuori a Padova, chissà quante milze a Roma, e vesciche a Torino e magari femori a Napoli e mandibole a Venezia sono conservati nel rigore del trattenimento che Alessandro Aruta, curatore dei musei di area biomedica della Sapienza, riferisce elencando le tecniche. “A inizio Ottocento la conservazione dei tessuti consisteva nella dissezione, era la tecnica autoptica principale”.
Dissezione, iniezione, macerazione, disseccamento: nella crudezza del linguaggio medico questa lotta infinita post mortem. La formalina oggi è il grande liquido che tiene in vita questi organi ormai morti.
Sono dunque centri scientifici, luoghi di studio e di cura oppure addirittura musei? Sono luoghi davvero aperti o invece socchiusi?
Micheal Sappol, dell’Università di Uppsala, si è per esempio visto negare dai colleghi padovani la possibilità di fare foto, e gli è stato proibito persino di usare il nome dell’Università di Padova per le sue ricerche, e qualunque altra confidenza possibile da far fruttare nel suo lavoro e nelle sue relazioni. Tanto da far decidere ad Andrea Carlino, storico della medicina dell’Università di Ginevra, di redigere un appello, sottoscritto da altri accademici che lavorano sia in Italia che all’estero, per protestare contro la decisione padovana: “È in gioco il principio di libertà di ricerca e di espressione e quello dell’accesso ai beni culturali pubblici. E poi la questione riguarda lo statuto dei resti umani e il modo in cui essi vengono gestiti”, segnala Carlino. “Io ho firmato quel rifiuto – dice Monica Salvadori, prorettrice dell’ateneo veneto – ma abbiamo detto no alla teatralizzazione dei resti umani. In America è un’attività molto sviluppata, noi invece equipariamo la parte al tutto, l’organo alla persona e ai suoi diritti universali alla riservatezza”.
I resti umani, ecco. Fino a pochi decenni fa è stata questione sottoposta all’ombra di una deregulation: “I Paesi colonialisti stanno avendo molti problemi perché trattengono presso le proprie università organi espiantati senza permesso. Gli africani, per esempio, rivogliono indietro sempre più spesso i resti acquisiti senza consenso. In Italia la questione è molto meno rilevante ma comunque c’è preoccupazione e la voglia di non innescare richieste simili”, spiega la professoressa Conforti. Intanto c’è da dire che è attivo il registro della donazione del corpo ai fini scientifici. Chiunque, anche se la pratica pare molto poco conosciuta, può sottoscrivere un documento in cui destina il proprio corpo all’accademia invece che al cimitero.
La morte che – appunto – soccorre la vita.