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 2024  marzo 05 Martedì calendario

Intervista a Felicia Kingsley

Golfino e ombretto pastello, unghie e occhi a mandorla, quando arriva al Corriere ha finito di inventariare la posta delle fan: le lettere, migliaia, in cartelline, i pupazzi al figlio di due anni; la sola cosa che butta sono «i cibi fatti in casa che mi mandano in tante. Mi disgustano un po’». Ai suoi firmacopie – molti, dai festival letterari alle Ipercoop – si creano code da Taylor Swift. Maga del lieto fine amoroso, l’architetta Serena Artioli incarna il lieto fine professionale sognato segretamente da molti scrittori: con il suo nom de plume, che è Felicia Kingsley, è cioè la scrittrice italiana più venduta del 2023, prima in classifica per gran parte dell’anno, due milioni di copie dichiarate di cui quasi uno nel 2023, quindici titoli pubblicati dal 2017.
Tra gli ingredienti del successo: «Buona presenza social; un editore, Newton Compton, che crede in me sin da subito e mi ha pubblicata senza riserve»; ambientazioni all’estero, salgariane perché «ci viaggio ormai pochissimo»; prezzi di copertina da tre euro in su. Ma anche un fattore più impalpabile: Serena Artioli non si sovrastima ma nemmeno si autodiagnostica la «sindrome dell’impostore», è spiritosa ma si prende sul serio, parla della scrittura senza troppe mistiche. «Non so se esista il blocco dello scrittore. Esiste non aver voglia di scrivere. Se la storia non va avanti è un’altra cosa: vuol dire che come l’hai pensata non funziona». Ingoia una pillola. «Ketoprofene. Il bambino si è ammalato, ho dovuto riprenderlo dal nido a Modena e portarlo ai nonni, poi mi sono messa in macchina per Milano...Per forza mi tira la cervicale. Comunque piacere, Felicia».
Ma è il suo pseudonimo.
«Non fa troppa differenza. Per me è nato come strumento per scrivere: ero architetta, temevo che l’Ordine mi avrebbe sanzionata per pubblicità illegittima e volevo autopubblicare i miei romanzi. Oggi mi chiedono come si legge; non so. Quando l’ho scelto, a 25 anni, non credevo l’avrebbe pronunciato nessuno».
E poi?
«Un giornale locale, senza chiedermi, mi ha smascherata. Ma potevano chiamarmi, no? Ora i fan mi scrivono pure alla Pec da architetta».
Ed è grave?
«Detesto il disordine».
A ogni femminicidio si dice, tra l’altro, che l’immaginario romantico tradizionale è «tossico». Lei scrive romanzi rosa. Che ne pensa?
«Vorrei cominciare a dosare l’uso della parola “tossico”: le parole si usurano. Nei miei romanzi cerco di ritrarre ragazze che non rincorrono il principe azzurro e uomini che vogliono una compagna che tenga loro testa. Ma non c’è nulla di male nel romanticizzare l’amore: le aspettative alte porteranno pure a delusioni, ma non averle vuol dire accontentarsi del minimo».
Chi paga al primo appuntamento?
«Spesso la disparità è fare a metà: in una realtà lavorativa come la nostra, una donna su due è inoccupata, molte devono lasciare il lavoro... Quando saremo pari su questo piano, allora si può cominciare a esserlo anche al ristorante».
Gli uomini leggono romanzi rosa?
«Il mio obiettivo è che li leggano. Ma è già difficile far guardare loro Harry ti presento Sally... Del resto io mica mi guardo quei film sparatutto».
Il suo compagno fa eccezione?
«Mai. I romanzi rosa sono spazi miei. Ci troviamo su altro: su cosa pensiamo della famiglia, ad esempio».
Come si chiama?
«Lui e il nostro bambino stanno fuori dalla mia fama».
Il vostro è stato un incontro da romanzo?
«Per niente: il classico “combino” di amici comuni».
Quanto sta al cellulare?
«Più o meno sette ore al giorno. Mi scrivono persone che raccontano le loro vite, gravidanze, difficoltà. I miei libri non cambieranno vite, ma ci facciamo compagnia. Molti esagerano e mi scrivono: grazie per avermi regalato questa storia. Ma quale regalato, l’hai pagata».
Poco. Alcuni suoi libri vanno in vendita a tre euro.
«Una scelta dell’editore, che condivido. Sono contenta se uno non deve scegliere tra leggermi e fare benzina».
Chi sono le sue lettrici?
«All’inizio ero io stessa. Scrivevo su quadernini o salvandole su floppy disk le storie che avrei voluto leggere io. Oggi sono donne di ogni età, soprattutto donne mature o ragazze sotto i 20 anni. E anche giovani donne attorno ai 30. Mi piace pensare di scrivere per mediowoman, la donna media. Che poi sono io».
Per chi vota?
«Ho votato di tutto, mi manca solo la Südtiroler Volkspartei. L’ultima volta ho votato per persone che stimavo, il partito non lo dico. Una ha vinto, una no».
Londra, New York, Vienna… i suoi libri sono spesso ambientati all’estero. Visita i luoghi di cui scrive?
Ride. «Una volta non avevo i soldi per viaggiare, ma avevo il tempo. Ora che ho qualche soldino ho un bambino di due anni. Non vado quasi più. La ricerca è divertente e con Internet molto facile. In passato è capitato che mi portasse il mio compagno: siamo camperisti. Io faccio le mappe, lui guida. Io trovo i campeggi, lui le strade. Prima che arrivasse nostro figlio guidavamo il fuoristrada… la gita più divertente l’abbiamo fatta da Roma a Pescara, tutta nei boschi dell’Appennino».
Da quando è una scrittrice ne ha ancora voglia?
«Sì, ma col bambino abbiamo chiuso. Ora è appassionato di barche. La sera traccia le rotte con carte nautiche, squadra, sestante. Io scrivo».
Come lavora?
«Ho poche aspettative nei confronti delle mie performance, forse sono anche troppo autoindulgente».
Insomma: ha pubblicato quindici romanzi in sei anni.
«Ho sempre pubblicato mentre avevo il progetto seguente già aperto, e ne ho scritti due l’anno fino all’arrivo di mio figlio. Bugiarde si diventa l’ho editato davvero durante il travaglio. Poi il lavoro è rallentato, per forza».
Le pesa?
«Ci sono giorni che penso: oggi prendo un aereo e sparisco. Ma non si può fare e quindi si cerca di incastrare un po’ tutto. Non esco mai».
Fa ancora l’architetta?
«Mi sono quasi fermata, ma progetto i miei libri come case: parto dall’analisi di punti di forza, punti deboli, opportunità e rischi»
Rischi?
«Se le premesse non tengono crolla pure un romanzo. Perché i personaggi vivono come vivono? I dialoghi reggono o parlano tutti uguali? I romanzi che ci sono in giro sono pieni di problemi».
Un esempio?
«Cinquanta sfumature. È stato una rottura nell’immaginario femminile di quegli anni che era molto romantico e inibito. Una donna che sceglie di farsi sottomettere perché? Perché le piace. Molto acuto. Ma si poteva scrivere meglio».
Come si scrive bene una scena di sesso?
«Regola numero uno, contare le mani: se una è sulla natica di lei e una sulla nuca, è una terza mano che regge lo champagne…? Poi bisogna chiudersi alle inibizioni, il sesso è tana libera tutti: vale ogni cosa, femminista o no. Infine essere brevi: non per altro, ma i sinonimi sono pochi...»