La Stampa, 5 marzo 2024
Le risposte che per fortuna non mancano. Riflessione su Zona di interesse
Del molto che è stato scritto sulla Zona di interesse, il film di Jonathan Glazer, mi ha toccato una riflessione di Wlodek Goldkorn: quando finisce la testimonianza, è l’immaginazione a tramandare la memoria. Il film – lo saprete tutti – racconta le giornate della famiglia di Rudolph Höss, il comandante di Auschwitz, in una villetta che un muro separa dal campo di concentramento. Il muro impedisce la vista del campo alla moglie e ai figli di Höss e a chi guarda il film, ma non ferma i rumori né le urla d’imperio né di dolore né i latrati dei cani. La grande protagonista, la macchina dello sterminio, non si vede mai e si immagina sempre. La famiglia è tavola, è in giardino, è in salotto, si intrattiene in conversazioni di sublime ordinarietà, le conversazioni di ognuno di noi quando c’è nulla da dire, e intanto da oltre il muro arriva l’incessante sottofondo di voci, di pianti, di schianti, di labili frastuoni di morte. Senza quel sottofondo spaventoso, il film non esiste, svaporerebbe in pochi minuti. Il film non si vede, si immagina. O perlomeno immaginiamo noi spettatori, mentre la moglie e figli di Höss non immaginano, è come se avessero fatto l’abitudine alla colonna sonora delle loro esistenze, non la sentono, non li riguarda, non li sorprende un solo istante, non sposta di un millimetro la banalissima quotidianità di pasti, pulizie, compiti, chiacchiere. Tutto perfettamente normale fino alla noia. E resta dunque soltanto un’altra cosa da immaginare: che avremmo fatto noi, così uguali a loro, al posto loro? Sono uscito dal cinema senza voglia di giudicare, ma di ringraziare il cielo che non c’è risposta.