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 2024  marzo 04 Lunedì calendario

Intervista a Rafa Leao

Arriva e crea scompiglio. In campo e anche qui, al Corriere. Prima spaesato, poi divertito. La foto con la prima pagina del 1876, la fondazione, è un viaggio (bizzarro) nel tempo per un ragazzo social del 2024. E lui sorride, sempre, è il suo modo di stare al mondo. Anche in partita. Il calcio è felicità, dice. «È la gioia dei bambini che giocano per strada, in tutti i luoghi del mondo». Il pallone è questo o è nulla.
Rafa Leao, il titolo del suo primo libro è «Smile». Appunto.
«Racconto me stesso. Ho solo 24 anni, so bene che c’è ancora tanto da scrivere, soprattutto come calciatore. Vorrei spiegare ai miei fan chi sono davvero. E perché sorrido».
Infatti: perché?
«C’è gente che non ha l’acqua per bere. Quando puoi camminare, hai da mangiare, magari hai qualcuno che ti vuole bene, la vita è “smile”. Io ho tutto, ho anche di più, Dio mi ha dato un dono e io gli sono grato. Il mio lavoro è giocare a pallone, ho coronato il mio sogno di quando ero bambino. Come potrei non sorridere?».
Il sottotitolo è: «La mia vita fra calcio, musica e moda». Le tre passioni: in quale ordine?
«Calcio, musica, moda. Sono un giocatore prima di tutto».
E in cosa deve crescere come calciatore?
«Per crescere devo vincere cose importanti, come la Champions o l’Europa League. Le cose belle si dimenticano troppo velocemente, quindi bisogna vincere ogni anno, il più possibile. Quando sei al Milan devi farlo, non è una scelta, è un dovere. Per lasciare il tuo nome nella storia».
E come cantante in cosa deve crescere?
«No, la musica per ora è solo un hobby. È la mia migliore amica. Appartengo alla generazione Z, quella dei nativi digitali. Mi sono appassionato al rap sentendolo sul telefono. Impazzivo per Eminem da bambino. Ma la musica era già in casa: mio zio era un dj, suonava alle feste private e in discoteca. Trap, drill. Poi ho iniziato a scrivere canzoni, sono al secondo album. Dopo Beginning, My life in each verse. Ho conosciuto Kanye West prima di Genoa-Milan. Ora c’è il calcio. In futuro, vedremo. Anche la musica è un modo per parlare di me. E per dare un messaggio: voglio spingere i ragazzi a credere nei sogni, a non mollare mai».
Canzone preferita?
«La mia “Escolhas”, “scelte”. Dice: “Molti dicono che sono cambiato / non sai cosa ho passato / Devo migliorare ogni giorno / Se fallisci, riavvia / Non ritardare, può essere tardi”».
Cosa vuol dire?
«Come prendere in mano la propria vita. Le decisioni non sono sempre facili, ma se sono qui è per le scelte che ho fatto. Anche quelle sbagliate. Essere un privilegiato non significa che la vita è sempre stata facile. E non significa essere incapaci di soffrire».
Moda? C’è una connessione con calcio e musica?
«Mi piace sperimentare. Milano in questo senso è fantastica. Ma sono sempre stato appassionato di fashion, il mio papà mi ha trasmesso la passione già da bambino: guai a uscire con una camicia non stirata. La moda può essere una possibilità del mio futuro».
Il piano è vincere oggi da calciatore e sfondare poi da cantante e modello?
«Di sicuro quando smetterò di giocare non resterò nel calcio. Sono in questo ambiente già da dieci anni, ho vissuto tante esperienze. Voglio togliermi quel tipo di stress e dedicarmi alla mia famiglia e alle mie altre passioni».
Lei è una star dei social, viaggia verso i 6 milioni di follower su Instagram.
«I social sono pericolosi, non è un mondo positivo. Troppo odio, troppe cattiverie. Le cose che so non le ho imparate lì. Li uso perché devo averli per il mio lavoro, però non mi piacciono. Si sorride poco sui social».
La sua risposta a un hater razzista ha fatto il giro del mondo.
«Sui social e non solo esiste gente così, purtroppo. Manca spesso l’educazione in famiglia, a scuola. Lui non sa nemmeno cosa ha fatto. E questo è un problema: i razzisti spesso non si rendono conto di come sono».
L’Italia è un Paese razzista?
«Il razzismo è ovunque, purtroppo. Ecco perché noi calciatori dobbiamo provare a fare qualcosa, visto che abbiamo tanta popolarità. Dobbiamo sfruttare questa forza, mandando messaggi. Il Milan è molto sensibile al tema. Anche nella vicenda di Maignan a Udine si è visto. Abbiamo fatto bene a comportarci così, giusto uscire dal campo».
Sul polpaccio ha il tatuaggio di Martin Luther King, con la scritta «I have a dream».
«Ne ho uno anche di Nelson Mandela. Per noi neri, sono due grandi uomini che hanno combattuto fino alla fine per far capire che siamo tutti uguali, indipendentemente dal colore della pelle. Ho voluto che il loro messaggio fosse su di me per sempre. Ho tanti sogni, uno di questi è un mondo senza razzisti».
E il sogno da calciatore? Che futuro si immagina?
«Il mio futuro è al Milan. Sono qui e ho ancora un contratto di quattro anni. Il Milan mi ha aiutato quando ero in una situazione difficilissima, mi è stato vicino. Io non dimentico, sono leale. Sono arrivato da ragazzino, qui sono cresciuto come uomo e come calciatore. Voglio vincere ancora, la mia testa è qui».
Di lei, Ibrahimovic dice: «È un genio, in campo vede cose che gli altri non vedono».
«Non sono un genio. Però lui ha fatto alzare tanto il mio livello. Mi parla di tutto, non solo del calcio. Avevo bisogno di lui: mi ha aiutato nelle partite e nella vita personale. È molto importante per me. Lo era quando giocava, lo è anche adesso».
Il suo idolo calcistico e quello musicale?
Ho i tatuaggi di Martin Luther King, Nelson Mandela e Bob Marley. Con la mia musica vorrei spingere i ragazzi a credere nei sogni, a non mollare mai
«Cristiano Ronaldo. Quando ero piccolo, Ronaldinho. Nella musica non ho un vero idolo. L’unico forse Bob Marley. Ho anche un suo tatuaggio».
Dalla periferia difficile di Lisbona al grande calcio.
«Ho fatto tanti sacrifici, ma soprattutto li ha fatti la mia famiglia. Mio padre Antonio è partito a 18 anni dall’Angola per lavorare in Portogallo e per darmi un futuro. Mi ha dato molti insegnamenti, prima di tutto l’importanza del lavoro. Ecco perché voglio fare di tutto per restituire ciò che mi hanno dato: ho la possibilità di fare qualcosa con il mio talento. La prima cosa che ho comprato con lo stipendio al Lille è stata una casa per la mia famiglia».
Lei è a Milano ormai da cinque anni, qual è il suo rapporto con la città?
«Ora è casa mia. Mi piace tutto: lo shopping, la moda, anche il clima, perché sembra di stare in Portogallo. Se pensate che Milano sia fredda, provate a passare un inverno a Lille. E poi il cibo! Mi piace tutto della cucina italiana: la pasta, i risotti, il pesce».
In campo, spesso alza gli occhi al cielo. Che rapporto ha con Dio?
«Molto stretto. Sono credente, cattolico, anche se alcuni pensavano che fossi musulmano, forse per il colore della pelle e per le origini africane. Prima andavo sempre a messa la domenica, ora faccio più fatica perché ci sono le partite. La preghiera fa parte della mia vita».
Sui social usa sempre il simbolo del surf: un’altra delle sue passioni?
«Mai surfato in vita mia. È un modo di vivere, perché il surfista prova e riprova sempre, senza arrendersi mai. L’onda prima o poi arriva. E devi essere pronto a salire sulla cresta».
A 24 anni è ricco. I soldi sono importanti?
«Certo, ma non sono la prima cosa. Mio padre non era ricco, ma era felice. Mi ha fatto bene andare dal Portogallo alla Francia, avevo 18 anni. Quel salto intermedio mi è servito per maturare. Lille è una città piccola. Non sarebbe stato un bene arrivare subito a Milano. Oggi è diverso, sono più grande e so cosa fare».
Auto, orologi: le piace il lusso?
«Quando vieni da dove vengo io, i soldi del primo contratto ti sembrano non finire mai, sono tanti, non hai mai visto quel numero scritto se non nei film su Wall Street. Non si deve perdere la testa. Subito dopo la casa alla famiglia, ho comprato qualcosa per me: un Rolex submariner. Il segno che ce l’avevo fatta. Ma un amico lo ha perso non so su quale aereo. Non gli ho parlato per una settimana... però è rimasto il mio migliore amico».
I primi ricordi?
«Il pallone fra i piedi, a Bairro da Jamaica, oltre il fiume Tago. Un quartiere molto popolare, la maggior parte sono immigrati, in molti dall’Africa. La mia famiglia è in parte angolana e in parte, da quella di mia madre, di São Tomè. Angolani, guineani, capoverdiani abitano il bairro. Non un posto facile. Lì di buono c’era il pallone, ci giocavo dalla mattina alla sera. Interi pomeriggi nel parcheggio del supermercato. A volte penso di essere rimasto su quel campetto. Spesso carte appallottolate o una lattina come palla, mentre un’auto era la porta. Il mio modo di giocare è ancora quello, un calcio di strada, finte, scatti, furbizia».
Sembra che lei voglia fare solo gol belli. Un difetto.
«Sì, amo i gol belli. Certo, vorrei farne sempre di più. Ma io faccio assist, giocate, sono completo. Il calcio oggi è solo statistiche, cifre. E a me non piace. Il calcio è magia, gioia. Mi fa arrabbiare che la gente pensi solo ai numeri. Se fai una brutta partita, ma poi segni, dicono “wow”. Io non sono così. Perché la gente deve divertirsi e mi devo divertire anch’io. Sono per la bellezza. Nel calcio, come nella moda e nella musica. Come nell’amore».
Piace ai bambini.
«Forse proprio perché gioco come i piccoli, che vogliono divertirsi».
La cosa che le ripete il suo allenatore Stefano Pioli?
«Sei sempre l’ultimo».
Ma è vero?
«Sì».
Cosa le dice invece Gerry Cardinale, proprietario del Milan?
«Non ci vediamo spesso, ma mi vuole bene, mi aiuta. Mi ha pure dato il suo numero di telefono, ma non chiamo, non vorrei disturbare. Anche l’ad Giorgio Furlani mi è molto vicino: mi parla in portoghese, gran persona».
Se le diciamo che non segna abbastanza gol e che manca di continuità, se la prende?
«Le critiche mi caricano. A volte mi arrabbio, se non sono costruttive. Mi dispiace se sono fatte per provocarmi. Mi chiedo: ma questo capisce di calcio? Sono emotivo, anche se non lo do a vedere. Comunque queste cose mi rendono più forte. Io so dove posso arrivare».
Lo scudetto è andato, i tifosi milanisti però vogliono l’Europa League: si può fare?
«Ci sono molte squadre forti, ma abbiamo un’idea chiara: arrivare in finale e vincere».
La maglia numero 10 è un peso?
«No, mi dà più forza. Il 10 è il calcio».
Sull’ultima domanda, se è innamorato, Leao va in dribbling. Una risposta, però, l’ha data nel libro. «Non riesco ad aprire il mio cuore al 100 per 100, ho una tremenda paura che mi possano ferire. Non riesco a lasciarmi andare, a essere me stesso in tutto e per tutto. Eppure sono certo di volere una famiglia, dei bambini, prima dei 30 anni. Forse ho paura che i figli possano provare quello che ho provato io, la separazione dei miei, e poi crescere come sono cresciuto io. Vorrei trasmettere quella relazione d’amore che non ho mai visto».