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 2024  marzo 04 Lunedì calendario

Scrittori che odiano le loro creature

Sherlock Holmes, io ti ammazzerei, sei troppo famoso per vivere. Elementare o no, Sir Arthur Ignatius Conan Doyle odiava il suo leggendario personaggio. Lo conferma anche Lucy Worsley, studiosa dello scrittore scozzese morto 71enne di infarto nel 1930, nell’inglese Crowborough. Worsley è protagonista in questi giorni di un documentario su Bbc 2, Killing Sherlock, in cui compare anche il celebre e baffuto romanziere. Che, trasudando copiosa frustrazione, confessa in un filmato di inizio XX secolo: «Di Sherlock Holmes ho scritto più di quanto volessi. La mia mano è stata costretta da amici che mi hanno implorato affinché continuassi. Una crescita mostruosa, originata da un semino». Insomma, disprezzo. Per il suo detective idolatrato in tutto il mondo, impersonato in tv e al cinema 245 volte da Benedict Cumberbatch, Robert Downey Jr, Basil Rathbone e altre star, protagonista dall’esordio Uno studio in rosso del 1887 in 54 racconti e 6 romanzi tradotti in 90 lingue per centinaia di milioni di copie vendute nel mondo. «Ma Conan Doyle si sentiva spodestato da Sherlock Holmes», racconta Worsley, «preferiva essere ricordato per i suoi romanzi storici come La compagnia bianca e La grande ombra». Invece del suo odiato e popolarissimo personaggio. «La cosa che lo faceva imbestialire», continua l’esperta, «erano le lettere che gli arrivavano indirizzate al 221 B di Baker Street», la residenza immaginaria dello scrittore a Londra, cui ancora oggi i fan spediscono missive di devozione. Il papà dell’acuto Sherlock Holmes, come J.G. Ballard con il suo ripudiato debutto Il vento dal nulla del 1961, considerava dozzinale la sua celebre saga. Lo si legge anche nella sua autobiografia: «Tende ad oscurare il mio lavoro. Senza Sherlock, avrei un posto ancora più prestigioso nella letteratura».
Robert Louis Stevenson, tra l’altro idolo e modello di Conan Doyle per i suoi romanzi storici, umiliava così la star del suo discepolo: «Sì certo, Sherlock Holmes è intelligente e geniale. Ma è la letteratura che apprezzo quando ho mal di denti». Così, nel 1893, nonostante la madre gli implorasse di non farlo e gli editori accettassero qualsiasi richiesta pecuniaria per tenerlo in vita, Conan Doyle ucciderà il deduttivo investigatore con la pipa nel racconto L’ultima avventura, dove Sherlock Holmes sprofonda nelle cascate svizzere di Reichenbach dopo lo scontro finale con il Professor Moriarty. Ma Conan Doyle è costretto a riesumarlo dopo un decennio, quando un editore americano gli offre l’equivalente di quasi 2 milioni di euro per il primo romanzo sul detective, Il mastino dei Baskerville (1902), ambientato prima de L’ultima avventura». Per poi resuscitarlo l’anno dopo («miracolosamente sopravvissuto alle cascate») nel racconto L’avventura della casa vuota.
Intanto, lo scrittore non sa darsi pace: «Se tra cent’anni dovessi essere ricordato solo per Sherlock Holmes, la mia vita sarebbe un fallimento», annota nel suo diario. Una maledizione, come per A. A. Milne e il suo troppo famoso e “ordinario” Winnie Pooh.
Uomini che odiano le primedonne. Eppure i due scrittori britannici non sono gli unici “Abramo” della letteratura, a uccidere un proprio “figlio”, per ideali più eterei. Un altro celebre investigatore, Hercule Poirot, stancò persino Agatha Christie, che per lui si era ispirata ad alcuni rifugiati belgi nella sua Torquay e che gli editori preferivano sempre alla sua favorita Miss Marple. Successo planetario, ma presto l’indimenticabile romanziera, la più pubblicata e tradotta al mondo dopo la Bibbia e Shakespare in inglese, bolla Poirot nel suo diario come «un piccolo e detestabile egocentrico». Almeno lei non lo ammazzerà di rabbia: la morte del pasciuto ed eccentrico ispettore, pianificata da tempo, arriverà in Sipario del 1975 (un anno prima che spirasse l’autrice inglese), e conquisterà la prima pagina del New York Times, così: «Hercule Poirot è morto in Inghilterra. Non sappiamo quanti anni avesse».
Poi Piccole donne di Louisa May Alcott, anno 1868. La scrittrice americana femminista e abolizionista iniziò presto a odiare le Little Women della sua opera più nota perché «melensa e limitata». Una cosa che la seccava particolarmente erano le lettere di ragazzine che le chiedevano di far sposare Jo con il suo amico Laurie: «Queste fanciulle mi chiedono con chi si uniranno le piccole donne, come se solo il matrimonio possa dare senso alle loro vite», scrive Alcott nel suo diario, «No! Non farò sposare Jo e Laurie solo per fare un piacere a questa gente!». E cosa dire di Arancia Meccanica di Anthony Burgess? Anche lo scrittore di Manchester ha esecrato per molti anni la sua opera più famosa, scritta in sole tre settimane per un “jeu d’esprit”, e il suo depravato protagonista Alex. Dopo lo scandalo e le minacce di morte che scatenò la sconvolgente versione cinematografica di Stanley Kubrick, pure Burgess la seppellì sotto una censura severissima, durata fino alla sua morte. «Voglio ripudiare Arancia Meccanica», scrive a un certo punto Burgess, «non era mia intenzione glorificare sesso e violenza. Questo malinteso mi perseguiterà fino alla morte!».
Mentre furono le ingenerose recensioni de La spia che mi amava (1962) a convincere Ian Fleming a “cancellare” questo capitolo di James Bond, pregando l’editore di non ristamparlo. Stephen King invece ha rimosso dal mercato Ossessione del 1977 e il suo protagonista Charlie Decker, per timore che i giovani americani emulassero sparatorie e stragi a scuola. Mentre Tolstoj si pentì maledettamente di aver scritto pietre miliari dell’umanità come Anna Karenina e Guerra e pace, dopo la sua svolta spirituale a 50 anni. Qualcosa di simile, curiosamente, accadde a Gogol’, sebbene poco prima che morisse, per Le anime morte e L’ispettore generale.
Per fortuna, però, c’è chi ha disobbedito ai grandi scrittori. Sul letto di morte, Franz Kafka chiese al suo amico Max Brod di far bruciare tutti i suoi diari e manoscritti inediti. Grazie al cielo venne ignorato. L’Eneide poteva subire lo stesso destino, per un altro motivo: Virgilio non aveva avuto il tempo di completarla e rivederla prima della sua morte, dunque ne ordinò il rogo. Invece, l’imperatore Augusto cassò l’autodafè. Perché, come scrisse proprio Elias Canetti: «Il successo ascolta solo l’applauso. È sordo a tutto il resto».