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 2024  marzo 04 Lunedì calendario

Intervista a Luciano Belli Paci, figlio di Liliana Segre


MILANO – Non è facile essere figlio di un simbolo, e l’avvocato Luciano Belli Paci di sua mamma Liliana Segre prova ad esserne, inoltre, il portavoce, l’assistente, il consulente e il consigliere, nel momento in cui la senatrice a vita è più esposta, idolatrata da folle di estimatori, richiesta come una star, ma anche bersagliata da attacchi degli antisemiti e degli odiatori della rete. Eppure fa tutto questo, sempre, con un’educazione d’altri tempi, gentilezza e una pazienza infinita di fronte a un lavoro che cresce di giorno in giorno.Belli Paci come ha vissuto il fatto che sua mamma sabato sia stata di nuovo presa di mira, questa volta durante un corteo pro Palestina?«È stato un episodio minore, non credo sia il caso di enfatizzarlo, anche se certo il clima generale è spaventoso. Lei ormai vive sotto scorta, costretta a querelare gli hater che la aggrediscono sul web, si è abituata alle fiammate di insulti ogni volta che parla, qualunque sia l’argomento. È una costante della sua vita. Rimane una donna curiosa del mondo e delle persone, anche se è un po’ stravolta dalla fatica, dallo stress.È preoccupata perché a volte le manca il fiato, ma è naturale ha: 93 anni e ha avuto una vita intensa».Da quando è senatrice, è divenuta un simbolo, la gente la ferma per strada.«Nel 2018, quando Mattarella la nominò senatrice a vita, nell’ottantesimo anniversario delle leggi razziali, fummo colti totalmente di sorpresa. Da allora è diventata un personaggio pubblico.All’inaugurazione del Senato nel 2022, la sua orazione è stata interrotta continuamente da applausi con tutti in piedi. Quando uscì, la gente si avvicinava in lacrime, ringraziandola».Liliana ha cominciato a testimoniare molti anni dopo il suo ritorno da Auschwitz, agli inizi degli anni ’90. Questo l’ha cambiata?«All’inizio aveva paura di non farcela, di mettersi a piangere e a urlare. Ma ha voluto comunque provare davanti a un piccolo uditorio. Con sua sorpresa andò bene. Man mano, da allora, ha parlato davanti a gruppi sempre più estesi, ha girato le scuole e le università di tutto il Paese, diventando sempre più forte, più nota e stimata».Da giovane era fragile?«Si impietriva, quando si trovava in situazioni che le evocavano le sue tragiche esperienze. Per esempio, una volta, davanti alle fiamme dei due bracieri accesi in cima a una porta d’ingresso alla Fiera Campionaria, o quando entrò un violinista tzigano nel ristorante dove eravamo a cena. Restava come tramortita dai ricordi, si trasfigurava, come avesse un macigno sulla testa che la schiacciava. Papà interveniva per proteggerla da questi traumatici ricordi, perché lui sapeva tutto, fin da quando la incontrò sulla spiaggia di Pesaro e le vide il numero sul braccio. La fermò e le disse: “Io so cos’è quel numero”. Perché anche lui era passato da diversi campi di concentramento e aveva incontrato i prigionieri ebrei».Un uomo d’ordine, che si innamora di una ragazza sopravvissuta ad Auschwitz.«È stato un marito straordinar io. Si comportava come un cavaliere antico, galante, attento, premuroso, la proteggeva dagli incubi del passato. Da qui nasceva il divieto a noi figli di farle domande. Era preoccupato che lei soffrisse, ma quando lei decise di cominciare atestimoniare, nei primi anni ’90, la sostenne sempre».Erano una bella coppia?«Alfredo aveva 38 anni, dieci più di lei, quando nacqui io, nel 1958, secondo di tre figli molto attesi ed amati. Era un impolitico, cattolico tradizionalista, piuttosto ingenuo e come tanta borghesia milanese, di orientamento conservatore. Nel ’68, si era visto crollare il mondo sotto i piedi, non c’era più autorità, tutto veniva contestato».Da qui la “sbandata” per l’Msi?«Era stato uno degli Imi (internatimilitari), venne catturato in Grecia dopo l’8 settembre, a 23 anni. Se avesse aderito alla Repubblica sociale di Salò, sarebbe tornato a casa. Non firmò, una scelta dura e consapevole, una forma di resistenza. Finì prigioniero, ai lavori forzati. Il suo antifascismo lo aveva dimostrato nei fatti. Non si iscrisse mai al partito di Almirante ma dette credito ad una sua conversione democratica che non aveva sostanza reale. Aderì con altri antifascisti liberali democristiani monarchici a “Costituente di destra” creata percercare di rendere presentabili gli ex fascisti».In casa sua si parlava di Auschwitz?«Ne avevamo un sentore, ma era un tabù. Avevamo visto il numero sul braccio e ci spiegarono che c’erano degli uomini cattivi che avevano fatto del male alla mamma.Papà non voleva che le facessimo domande, per non provocarle dolore, come bisognava evitarle spaventi, urla, tensioni, cani lupi. La disciplina in casa era rigida. Solo dettagli frammentari, dato che entrambi erano stati entrambi prigionieri dei tedeschi».Lei intuiva qualcosa?«Studiai la storia della Seconda guerra mondiale, cominciando a mettere assieme i pezzi del puzzle.C’erano le fotografie del nonno e dei bisnonni, lei a volte ci diceva qualcosa. Ma il primo racconto dettagliato l’ho avuto molti anni dopo, quando mi permise di mettermi all’ultima fila dell’aula magna gremita della Cattolica che l’aveva invitata».Quando suo padre si avvicinò ad Almirante, che successe in famiglia?«Un problema molto grosso con mia mamma. Arrivarono sull’orlo della separazione. Lui dopo pochi anni rinunciò all’attività politica per evitare la crisi. Io ero già da tempo impegnato politicamente, quando papà si candidò alle politiche nel 1979, come indipendente con Costituente di destra. Ero molto a disagio perché ero entrato nel Psdi».Una scelta anticonformista, negli anni della contestazione.«Alle medie ero compagno di banco di Tito Boeri, che era già un fenomeno, aveva letto Marx ed era un convinto marxista leninista. Ero in netto dissenso con un comunista dogmatico come lui, ma mi rendevo conto di non essere in grado di difendere le mie idee. Fino a poco tempo prima avevo letto soprattutto Topolino, ma l’amicizia con Tito mi spinse a studiare. Mi ritrovai nelle idee socialdemocratiche».Come finì?«Seguii Tito al liceo classico Manzoni, autunno ’72, in città c’era una tensione estrema. Alla prima assemblea, vidi un gruppo di ragazzi cacciati fuori violentemente perché bollati come “fascisti”. Esternai il mio rammarico, citando Voltaire, allora venne decretata anche la mia esclusione. Fui sollevato di peso (allora ero un fuscello), e depositato fuori dall’aula, perché “solidale coi fascisti”. Da lì con i fratelli Boeri, che erano tra i capi del Movimento Studentesco, ci siamo persi. Cambiai scuola, andai al Parini. La volta che venne Saragat a Milano per un comizio, fu Liliana ad accompagnarmici perché io ero troppo piccolo per andare da solo».E oggi, com’è il vostro rapporto?«Ci sentiamo tutti giorni, le stampo la rassegna dei giornali, la aggiorno su ciò che deve sapere.Affiancandola ho avuto centinaia di incontri stimolanti, presidenti, gente comune, personaggi dello spettacolo come Ezio Greggio, Fabio Fazio e Geppi Cucciari, diventati suoi grandi amici. Il più grande privilegio è stato avere la possibilità di conoscere Mattarella, e sua figlia. Sono molto orgoglioso di lei e della sua forza. È mia mamma, so che per lei tutto è faticoso, ma la incoraggio perché solo grazie a questa sua grande esposizione è possibile far arrivare a un pubblico enorme alcuni principi di cui lei è portatrice, e che, nel mio piccolo, mi ha insegnato».