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 2024  marzo 04 Lunedì calendario

Intervista a Pamela Villoresi

torino
«Cosa direi se mi trovassi faccia a faccia con Pamela da giovane? Ma le darei un bacio! A 15 anni è andata via di casa, fatto la fame e sofferto il freddo nelle peggiori pensioni, perché metteva tutto quel (poco) che guadagnava in libri. Ma questo mi ha fatto diventare esattamente quella che volevo e che sono. Quindi, sì, mi bacerei e ringrazierei». L’orgoglio di sé anima Pamela Villoresi: una cinquantina di anni la separa da quella ragazza (il primo libretto di lavoro nel 1972). E sono anni pieni di cose: attrice, regista, scrittrice, direttrice dello Stabile di Palermo (fino a dicembre 2024), organizzatrice di festival. Al suo debutto, ha recitato con Roberto Benigni («Sconosciuto ma già geniale ed esuberante»), poi ha lavorato con Strehler («mi ha fatto da padre teatrale»), Gassman («un’esperienza complicata: venivo dal Piccolo, allattavo il mio secondo figlio, mi sentivo un pesce fuor d’acqua»), Manfredi («generoso, mi ha insegnato tutto sui tempi della commedia») e decine di altri grandi come loro.
De La ragazza sul divano, che debutta domani al Teatro Carignano, lei è la protagonista. Produzione congiunta dello Stabile torinese e di quello palermitano, del testo del Nobel Jon Fosse firma la regia Valerio Binasco, che ne è anche interprete con Isabella Ferrari, Michele Di Mauro, Giordana Faggiano, Giulia Chiaramonte e Fabrizio Contri.
Scusi, Villoresi, una donna matura che ritrae se stessa da giovane: come è possibile?
«Il mio personaggio, donna irrisolta e piena di dubbi su di sé e sul suo lavoro, riflette sulla sua vita. Sarebbe un monologo, ma il passato diventa presente, e i personaggi che ricorda si affacciano alla scena, il padre, lo zio, la madre. E, appunto, la ragazza del dipinto: lei da giovane, al contrario di me, da quel divano non s’è mai alzata... Che è poi il dramma dei giovani oggi: non escono di casa, chini sui telefonini e il computer, non vivono la vita. Alzatevi e rischiate».
A 15 anni lasciò casa. E poi?
«Una volta imparato che puoi andartene, diventa innata. Sempre. Nel lavoro come in amore. Perché un amore sbagliato è peggio che stare da solo. Mai prolungare situazioni che non ti corrispondono. Via subito, anche se sai che dovrai pagare un prezzo».
Tipo?
«Mi è accaduto con il matrimonio, quando ho avuto due figli e stavo lavorando molto, quando ho adottato la mia terza figlia. La stessa direzione del Biondo è stato un azzardo: sono la sesta donna nella storia della Repubblica Italiana direttore di uno Stabile: e non è che non me l’abbiano fatto sudare. Devi lanciare alto il tuo rampino e faticare. Ma quando questo diventa il tuo modus operandi, e viene naturale praticarlo. Oggi se trovo la strada sbarrata, non mi fermo né torno indietro, cerco automaticamente l’alternativa, che poi percorro senza ripensamenti».
Un caso eclatante di “fuga”?
«Con Giorgio Strehler. Per me è stato un vero padre teatrale. Ma volevo costruirmi una strada mia, capire quanto valessi senza di lui e lontano dal Piccolo Teatro. A posteriori, è stata una scelta che mi ha salvata: Strehler morì prematuramente e molti suoi attori – anche bravissimi, eccellenti – si sono fermati, spariti. Lo stesso accadde con il cinema: c’è stato un momento in cui ne facevo molto e ho dovuto scegliere, o lui o Strehler. Ho scelto il teatro: non nego che sia stata una decisione sofferta».
Tanti incontri nella sua vita. Con Binasco come è stato?
«Merito del direttore Fonsatti. E anche un po’ di Filippo Dini. A Fonsatti avevo detto che pur di lavorare con Valerio mi sarebbe bastato servire il caffè. Mentre Filippo lo ha portato a vedermi a teatro. Quando mi telefonò, dissi sì, senza sapere cosa mi proponeva: con un genio come lui, anche l’elenco del telefono diventa un capolavoro».
E dopo aver letto La ragazza, cosa ne pensa?
«Fosse è un grande erede della tradizione nordica, da Ibsen a Bergman».
Non è mai stata di quelle che tacciono. Oggi promuove su Youtube il 1522, numero gratuito antiviolenza e antistalking. Negli Anni ’70 protestava: in una foto è a una manifestazione femminista, al collo il cartello “Siamo stufe”. Cosa ricorda?
«Ero una femminista sfegatata. C’erano tante manifestazioni, allora: divorzio, aborto, contro la violenza sulle donne, “Riprendiamoci la notte”...».
Non fa rabbia a pensare che si protesta quasi per le stesse cose? Pare talvolta di fare passi indietro.
«La violenza è ancora tanta, ma almeno ora gli stupratori vengono condannati. Non siamo alla parità, ma passi avanti ne abbiamo fatti. Dalle suffragette a oggi è un processo lento ma continuo. Dobbiamo molto a chi ha fatto da apripista in anni difficili. Però è vero, spiace che le donne continuino a sacrificare la propria indipendenza economica, a lasciare il lavoro per la famiglia, a mettersi nelle mani di un uomo. È una roulette russa: sicura che sarà per tutta la vita»
Di cosa sarebbe stufa oggi?
«Che i diritti umani non vengano rispettati. Donne, migranti, minoranze, popoli. Che la pace sia sempre minacciata. Ma per questo non basta manifestare, è una responsabilità personale, per cui dobbiamo operare incessantemente, anche nelle piccole cose. È un momento bruttissimo quello che stiamo attraversando, ma non il peggiore: il 900 quanto a guerre è stato ben peggio. Ritornare a quei climi però è un attimo. La natura del mondo è violenta. L’uomo però può invertire lo stato naturale ed essere portatore di pace. Questa è secondo me la bellissima scommessa dell’esperimento uomo». —