il Giornale, 4 marzo 2024
Che cosa può dire un prete quando muore un bambino
Q uando ci si trova, com’è successo nei giorni scorsi a chi scrive, a partecipare al funerale di un bambino, vien da interrogarsi, già all’ingresso in chiesa, su che cosa potrà dire il prete, quali parole potrà trovare per spiegare come sia possibile che un Dio che ci ama possa permettere una cosa che nessun umano permetterebbe mai: la morte di un innocente.
Aspettando l’omelia, e osservando tutte quelle persone stipate in chiesa in uno sbigottito silenzio, mi sono venute in mente le parole pronunciate dal pulpito, mi pare da un vescovo, una ventina abbondante di anni fa, quando durante un terremoto in Molise ventisette bambini delle elementari morirono nel crollo della scuola. Riassumo la predica di quel prelato: «Ci si chiede come Dio possa permettere un simile male argomentò ma non è mai Dio a mandare il male, il quale esiste a causa del peccato dell’uomo; infatti, se la scuola fosse stata costruita secondo le norme antisismiche, nessun bambino sarebbe morto».
Trovai e trovo tuttora incomprensibili, per non dire inaccettabili, quelle parole. Perché se è vero che quella scuola era stata costruita male, quale colpa potrebbe essere attribuita all’uomo per i terremoti e i crolli dei secoli andati, quando non esistevano le tecnologie antisismiche? E le eruzioni vulcaniche, e le alluvioni, e le carestie, e la peste del Trecento e del Seicento? Forse anche allora la colpa fu dell’uomo? Ma comunque: se oggi un bimbo o una bimba muoiono di malattia, la responsabilità è forse dei medici, che a tutt’oggi non hanno saputo trovare una terapia? O piuttosto dobbiamo prendere atto che esiste un mistero di iniquità?
La memoria, durante il funerale, mi è andata anche a una sera di qualche anno fa. Avevo intervistato, in un teatro, il comico Giacomo Poretti, quello del Trio. Alla fine dello spettacolo fui avvicinato da una signora che mi disse: «Sono qui con mio figlio di dodici anni, è malato di quella terribile malattia progressiva che è la distrofia muscolare. Giacomo è il suo idolo, se lei riuscisse a farglielo incontrare, gli regalerebbe qualche minuto di felicità». Riuscii a combinare l’incontro e quella mamma mi ringraziò
con le lacrime agli occhi. Meno di una settimana dopo l’altro figlio di quella signora, l’unico sano, morì in un incidente stradale a diciannove anni. Raccontai tutto questo a un mio amico credente e lui mi disse: «Se Dio ha permesso questo, è sicuramente per il nostro bene. Non cade foglia che Dio non voglia». Lo mandai a quel paese e gli dissi che quando ci è stato comandato di non nominare il nome di Dio invano, probabilmente siamo stati esortati a non tirarlo in ballo a sproposito.
Se davvero non cade foglia che Dio non voglia, ci sarebbe da capire chi impreca contro di lui. Credo sia stato molto più onesto un altro sacerdote, un barnabita assistente degli Scout, che salendo sull’altare per celebrare il funerale di uno dei suoi ragazzi, finito sotto una macchina a quindici anni, si rivolse alla gente che riempiva la chiesa allargando le braccia. Come dire: sono senza parole anch’io.
I cristiani possono solo guardare il crocefisso: se non ha potuto impedire la morte del suo figlio, vuol dire che in questo mondo non è onnipotente. I cristiani possono solo parlare di resurrezione. Ma la morte di un bimbo resta un mistero al di fuori della nostra portata. Chi ostenta certezze, o mente o non ha capito di che cosa stiamo parlando. Credere è difficile, avere fede è difficile: Dio se c’è è nascosto, diceva Pascal. E se è un Dio buono, avrà comprensione e pietà per i nostri dubbi.
Quando finisce un funerale, la gente che esce di chiesa conserva ancora per un po’ lo sgomento, le lacrime, il volto tirato, il silenzio. Poi i minuti scorrono e già lì sul sagrato qualche tensione si scioglie. Si nota perfino, a un certo punto, qualcuno che sorride. È la vita. È la vita che, piano piano ma inesorabilmente, torna a imporsi, perché la vita ha una sua forza che si impone sempre. E forse è questo che ci può regalare una speranza.