La Stampa, 3 marzo 2024
Intervista Alessandro Dalai
Avolte, il talento paga dazio al potere. Questa è la storia di una di quelle volte. Ed è una storia di ingiustizia, malafede e malagrazia, successa quando, nella nostra industria culturale più influente, l’editoria, i grandi hanno cominciato a mangiare i piccoli per salvarsi, o per esercitare un controllo felpato ma ingombrante. Tutto comincia nel gennaio 2013 e finisce a dicembre dell’anno scorso, quando la Prima sezione del Tribunale Penale di Milano assolve con formula piena Alessandro Dalai, ex editore della Baldini Castoldi Dalai, dall’accusa di bancarotta fraudolenta della sua stessa casa editrice. Il fatto non sussiste.
PUBBLICITÀ«Qualcuno in Mondadori mi ha fatto fallire», dice alla Stampa, seduto a una scrivania troppo imponente per lo spazio caldo ma angusto del suo studio di oggi. «È l’unica cosa che ho tenuto della mia casa editrice, prima del fallimento», dice. E rovescia una clessidra: «Si metta comoda, dura due ore». Parliamo parecchio di più, nel suo studio al piano terra di un condominio circondato da intimorenti palazzi colonizzati da studi legali associati, nel centro di Milano.
Ha perso case, lavoro, credibilità, amici. Prima, era stato responsabile di collane in Mondadori, amministratore delegato di Einaudi e dell’Unità, proprietario ed editore della Baldini Castoldi, centenaria e in disuso, trasformandola in una miniera d’oro: ha pubblicato due dei casi editoriali italiani più clamorosi degli ultimi trent’anni: Io uccido di Giorgio Faletti e Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro.
Dalai, negli ultimi 10 anni cos’ha fatto?
«I primi quattro li ho passati a guardare il muro».
Immobile?
«Quasi. Prima volevo capire e poi, quando ho capito, mi sono reso conto che non c’era più niente da fare».
Capito cosa?
«Che qualcuno in Mondadori voleva farmi fallire».
Chi?
«Riccardo Cavallero, all’epoca direttore generale».
Perché?
«Improvvisamente, nel 2012, Mondadori prese ad andare malissimo: aveva un bilancio sotto di 185 milioni di euro, che copriva con delle sopravvenienze passate, degli utili passati. Perse Saviano e Mancuso e molti altri, che con la Mondadori di Berlusconi non volevano avere a che fare. Così, Cavallero cercò sul mercato un grande autore di best seller, e in quel momento, c’era Faletti, il quale aveva già fatto con Mondadori due libretti, però aveva dichiarato, nel 2011, che sarebbe tornato da me con il nuovo thriller».
Quindi?
«Quindi, la mattina del 9 gennaio 2013, Cavallero entrò nel mio studio e mi disse: non pubblicherai il prossimo Faletti».
E lei aveva, invece, pregressi accordi con Faletti?
«Gli avevo già pagato i diritti: 320 mila euro di anticipo a valere su 800».
Faletti venne a parlarle insieme a Cavallero?
«Macché. Lo avevo sentito per gli auguri di Natale, dieci giorni prima, e non aveva fiatato. Non mi aveva detto quello che gli autori, quando crescono molto, dicono agli editori, se sono piccoli, e cioè che vogliono andare dai grandi».
Legittimo, no?
«Certo, ma non dopo aver firmato un contratto. Quindi chiamai Faletti e gli dissi: parliamone, mi dai l’ultimo libro e te ne vai dove vuoi, come si fa tra persone civili».
E invece?
«Invece, lui aveva fatto un altro contratto con Mondadori di 300 mila euro a valere su 800, uguale a quello che aveva fatto con noi, per due libri. Senza dirmi niente».
Come si giustificò?
«Mi disse che non si trovava bene e scomparve. Mi lasciò da solo a discutere con Cavallero, che aveva un unico mandato: far fruttare il suo contratto e pubblicare due libri di Faletti a Mondadori. Io, allora, capii che il mio contratto, per il quale avevo sborsato quella cifra gigantesca (lo ripeto: 320 mila euro), non sarebbe stato onorato, e cominciai a mettere in piedi tutte le cose che si fanno quando ti mancano 20 milioni di euro di fatturato: una procedura per entrare in concordato preventivo, di modo da garantire la prosecuzione dell’azienda, ed è questa la manovra che poi non è stata capita dai curatori e che ha portato alle accuse contro di me di bancarotta fraudolenta. Ci sono voluti dieci anni per dimostrare che io stavo solo cercando di salvare l’azienda. Comunque, il concordato preventivo venne osteggiato da Mondadori».
Perché?
«Perché volevano farmi fallire. Facendomi fallire, infatti, si sarebbe sciolto senza danno il contratto che legava Faletti a me, cioè alla Baldini Castoldi. Non era mai successo niente del genere nell’editoria. Dieci anni prima, ci saremmo seduti a un tavolo e io avrei detto a Leonardo Mondadori: se vuoi Faletti, va bene, ma dammi 2 milioni di euro, perché quello è il minimo dell’incasso che io faccio al netto di tutto con questo autore, e così posso andare avanti. Ma niente, non fu possibile discutere. Seppi poi che Cavallero era in grande difficoltà con Mondadori, che infatti poco dopo lo mandò via: la sua gestione aveva collezionato sette trimestri di libri in rosso».
Quando capì che dalla Mondadori non avrebbe avuto niente, cosa fece?
«Aiutai mio figlio Michele e il suo socio a far nascere la nuova Baldini&Castoldi. Loro si impegnarono per dimostrare, come vuole la procedura prevista dal concordato preventivo, che la casa editrice avrebbe soddisfatto in una certa percentuale i suoi creditori».
E poi?
«E poi Michele e il suo socio non se la sentirono».
E la fecero fallire?
«Purtroppo sì».
Non si fidavano di lei?
«Anche. Ma non si fidavano neppure di loro stessi».
E?
«Il concordato non andò in porto, loro presero in affitto la società di cui ero legale rappresentante e andarono avanti. Io e Michele smettemmo di parlarci».
Contro Mondadori che fece?
«Feci prima di tutto causa a Faletti, subito nel 2013, poiché lui non mi consegnò il libro, e anzi mi consegnò un libretto di 20 pagine che si chiamava La piuma e che io avevo letto anni prima, ed ebbe anche il coraggio di sostenere che era quello su cui ci eravamo accordati e che valeva 800 mila euro di anticipo. E poi feci causa alla Mondadori, che mi chiuse il magazzino, impedendomi di far uscire i miei libri».
Quindi lei fallì per la mancata firma del concordato preventivo e perché non poteva più vendere i suoi libri?
«Esatto. E la nuova Baldini, intanto, non riusciva a trovare un distributore, perché Cavallero ordinò a Mauri, che obbedì volentieri, di non distribuire i libri di Michele: l’unico a rifiutarsi di stare a quel gioco fu Carlo Feltrinelli, che così rese possibile la ripartenza di Michele, che dovette ristampare tutti i libri, perché i nostri erano bloccati».
E che ne è stato di quei libri?
«La cosa incredibile è che Mondadori continuava a ricevere delle rese, quindi il nostro magazzino da 3 milioni e mezzo di copie, diventò di 5 milioni di copie, che però loro non misero a contabilità e quindi non comparvero mai i ricavi. I curatori presero quei 5 milioni di copie, fecero fare una perizia a un agente della scolastica della Mondadori, peraltro anche loro grossista, che in quella perizia scrisse che i libri erano in perfetto stato, ma non sarebbero mai stati venduti perché erano di una casa editrice chiacchierata. Dentro c’erano un milione e mezzo di copie di Faletti. Decisero di svendere, di fare uno stock di 5 milioni di copie (che valgono 10 milioni di euro non pagati agli autori, perché lo stock libera dal contratto). Oggi se va sui siti di Mondadori, trova i nostri libri al 50 per cento: in questi 10 anni, hanno portato un fatturato 10 milioni di euro. E loro il magazzino lo avevano comprato a 250 mila euro. Un buon affare, no?».
Ora che lei è stato assolto, che succede ai responsabili di tutto questo?
«Vedremo».
Ha mai sentito qualcuno di loro in questi anni?
«Mai».
Chi l’ha aiutata?
«L’unico è stato Enrico Selva Coddè, ora vicepresidente di Mondadori Libri».
Di lei si sente dire che è persona inaffidabile.
«Sia precisa: editore chiacchierato».
Riesce a lavorare?
«Ho fatto un bellissimo dizionario della moda e non sono ancora riuscito a trovare un distributore. Sono andato a trovare Carlo Feltrinelli e il capo della Mondadori Retail è quasi mio parente, ma niente da fare. Quando sono diventato consigliere per l’editoria di Bonisoli, che era ministro della Cultura espresso dai Cinquestelle nel governo gialloverde del 2018, in sei mesi ho fatto la legge del libro, ho richiamato tutti gli editori attorno a un tavolo. Non è venuto nessuno».
La prima telefonata dopo il disastro chi gliel’ha fatta?
«Non è arrivata mai. I telefoni smettono di suonare, sei da solo, la famiglia si sfascia, ti guardano con sospetto anche in casa tua: si spappola tutto. Gli unici che non sono mai mancati sono alcuni miei amici, Stefano Lucchini che è il numero due di Banca Intesa, Pazzali della fiera di Milano, Pietro Modiano. Ho trovato questo posto dove dal 2015 faccio un giornale online con alcuni ragazzi, MAME».
Amici intellettuali?
«Zero. No. Io ho un solo fan sfegatato che è Sebastiano Vassalli e che mi voleva presidente della Rai. Gli autori sono scomparsi immediatamente e mai più riapparsi, nemmeno quando sono stato assolto e ho mandato a tutti i comunicati. Nessuna risposta neanche dai giornalisti. Il giorno dopo essere stato nominato consulente di Bonisoli, sul Fatto Quotidiano, Padellaro – che deve la parte migliore della sua carriera a me, visto che lo presi dall’Espresso, dove faceva il vice di Valentini, e lo portai all’Unità, dove acquisì una sua dimensione – ha scritto: “il consulente di Bonisoli ha un fallimento aperto ed è indagato per bancarotta fraudolenta”. Il Fatto non ha però pubblicato una riga sulla mia assoluzione».
Cosa le dice questa storia dell’essere umano?
«Ho avuto una vita bellissima e ho fatto il mestiere che volevo fare da protagonista. Poi mi è successo qualcosa che nell’editoria italiana non era mai capitato: era capitato che ti comprassero, non che ti facessero fallire. Dell’Utri mi disse: “Dottor Dalai, se io non fossi andato in galera, questa faccenda l’avremmo risolta”. Non faccio il predicatore, non traggo morali».
Hai mai fatto male a qualcuno?
«Mah. Chi lo sa. Forse sì».
Ottima risposta. È mai stato disonesto?
«No. Ma mi sono sempre trovato in situazioni molto conflittuali».
L’editoria ha ancora potere?
«Certo. Pubblica i ministri».
Cos’è un editore?
«Uno che conta le copie e annusa gli autori».
Lei ha lavorato con Giulio Einaudi. Che tipo era?
«Cattivo. Affascinantissimo. Faceva valere il fatto di essere il figlio di Luigi Einaudi. Quando andammo da Scalfaro a presentargli un annale della Storia d’Italia, pretese di sedersi dove sedeva suo padre. Era bello e apprezzato, trattava male le donne infatuate di lui».
Aveva fiuto?
«No».
Talento?
«Essere Giulio Einaudi. Passeggiava per Torino e si faceva seguire dal suo autista. Nelle famose riunioni del mercoledì, metteva in pratica piani che orchestrava per tutta la settimana per creare zizzania. Ricordo che Cerati dava i dati di vendita sbagliati, io lo scrissi anche su la Repubblica e lui smentì, ma lo ribadisco: li dava sbagliati e lo dimostrai con i tabulati. A seconda di quello che voleva fare Giulio, Cerati diceva che i dati gli davano ragione. Quasi mai era davvero così».
Lei in Einaudi si portò suo zio, Oreste Del Buono.
«Mi aiutò a far pubblicare Le formiche nel loro piccolo si incazzano, vincendo le resistenza einaudiane, che in quel libro vedevano un attentato alla raffinatezza. Fece 3 milioni di copie. E Giulio volle il seguito. Quando poi mi cacciarono dall’Einaudi, a Oreste non lo dissi perché non volevo ci restasse male, era molto contento di esserci ritornato. Era un irrequieto, a lavoro aveva dato le dimissioni 120 volte, una volta le diede anche a me, quando, dopo un derby, lo chiamai e gli dissi: “Uè, 2 a 1!”. Io sono interista, lui era milanista. Mi rispose: “Ma allora sei un figlio di puttana!”. Mia madre era sua sorella».
Lei ora è contento?
«Enormemente, ma ancora non me ne sono reso conto e ogni tanto me lo dico in motorino: mi hanno assolto!».
Le basta?
«No. Voglio esser risarcito».
Ha pagato il suo talento?
«Sì».
E qual è stato il suo più grande talento?
«Essere riuscito a passare dall’industria all’editoria, che era il mio sogno».
Da ragazzo cosa voleva diventare?
«Sindacalista. O assistente universitario».
È stato avventato?
«Lo sono ancora: l’età non cambia niente. A parte il corpo».
È la prima volta che lo sento dire.
«Non ho mai avuto il senso del limite, si figuri se lo ho adesso».