il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2024
Il ritorno di Renato Zero
“Torniamo in piazza. Tutti!”. Quasi lo grida, Renato. “Sì, se mi gira ci vado pure io. Non sto mica sull’Himalaya a guardare i ragazzi laggiù, a dir loro: ciao belli, fa freddo laggiù?”. Il momento è quello che è, ma se “questo Stato comatoso ci vuole incolti, e dice ai giovani di chiudere i libri, fare pippa e restare scemi, a 20 anni il bluff di questi signori lo scopri”. Mobilitarsi, allora, suggerisce Zero. “Ho scritto canzoni come Rivoluzione o Che bella libertà, sono sempre stato con chi vuole cambiare il mondo. Ci siamo mossi tante volte per cose meno decisive di quelle di oggi, e la piazza è il tabernacolo della gente”. A chi vuole blindarle si può solo mandare a dire: “Le hanno chiamate piazza del Popolo o piazza Risorgimento, sono nomi che gridano. Ci deve andare il ricco accanto al povero, il vecchio democristiano e il rosso”. Il giovane e l’anziano. “E non come ai tempi miei, quando ci mettevamo le bandane. Si va a viso scoperto, con il bel faccino in vista. Devi farti riconoscere, esserci fisicamente, la società non la cambi per delega”.
La perorazione di Zero. Accalorata, perché Firenze ha visto i manganelli, come Pisa, e una strage sul lavoro.
Ed è anche la città da cui è ripartito ieri per una prima festa sul palco, al Mandela Forum. Sei date, fino al 10 marzo, nel capoluogo toscano, poi altre sette (dal 13) al Palasport di Roma. Con altri due “concerti-evento” più in là, il 14 giugno all’Arena della Vittoria di Bari e il 21, nella sera del solstizio d’estate, il personale debutto a Piazza del Plebiscito, “un portone che si apre per l’abbraccio di Napoli”, confida. L’avventura del tour di Autoritratto è “minimalista” sul piano delle scenografie, non su quello musicale: “Abbiamo una robusta sezione di fiati alla Otis Redding, più tutti i miei meravigliosi manovali del ritmo”. Quanto a eventuali ospiti, “tanti amici mi hanno già fatto fare una gran figura al Circo Massimo”, dunque ora chi vai a pescare, “personaggi che magari non conosci, non ci vai in trattoria insieme, e quando li porti in scena qualcuno in Italia sospetta che lo fai per vendere più biglietti?”. Niente maschere, per giunta. “Ho già dato. Come quando vai alle manifestazioni, la filosofia della maschera ti serve alla fine, per mostrarti dopo aver raggiunto la tua identità”. A 73 anni suonati può permetterselo: “Essere artista significa amare la gente, spendere 140mila euro per mettere tutti a sedere comodi e cantare sotto il diluvio universale come successe a Roma. Stare tre ore sul palco, e riconoscere chi hai davanti”. Da tempo si è messo in proprio, Renato, pur di non sottostare al pressappochismo di un’industria discografica alla canna del gas: “Uno degli ultimi direttori della grande etichetta per cui lavoravo proveniva dal settore cosmetico. Potevo mettere la mia vita e la carriera in mano a uno che aveva venduto dei dopobarba?”. Cinquant’anni di curriculum a rischio svendita. “Eh no. Servono sempre professionisti competenti. Non si usano più le orchestre perché costano, nessuno scrive partiture. E dove sono gli assistenti musicali che aiutano il talento esordiente a trovare la propria voce? Se sbagli tonalità ammazzi la canzone”. I teen-idol allevati in batteria come polli. Finché qualcuno non si chiama fuori. “Sangiovanni ha mostrato coraggio sottraendosi al banchetto, prendendosi del tempo per valutare la sua professione o cambiare strada”. Quant’è complicato, per chi agguanta la fama oggi, rivendicare libertà d’espressione. Zero cita De André, Guccini, o la “satira condita di gigioneria” di Rino Gaetano per indicare una strada duratura, fatta “di buona fede e coerenza”, affinché “l’arte resti, oltre il prossimo casello del viaggio, altrimenti è un lavoro fatto a metà”.
Per Sua Zerità Firenze è un giro in tondo nel tempo: “Qui sono stato accolto più di 50 anni fa: andavo in giro con un revox e mettevo le basi per le mie esibizioni in discoteche riempite per ballare. Celebravo la mia presunta nascita di cantautore intonando Sogni nel buio da No! Mamma, no!, e i presenti tacevano intuendo che avessi qualcosa da dire. Firenze e la Toscana mi accolsero, ma anche i locali della Romagna. Due piume, due paillettes e un registratore”. Un giorno annuncerà il ritiro, come Baglioni? “Se lo dici devi farlo”, ammicca sornione. “È come quando lanci la moneta, esce testa o croce, non ci sono terze possibilità. Fra tre o quattro anni, se penserò ‘A Renati’, datte ‘na regolata’ troverò più elegante, alla fine di uno show magari all’Olimpico, salutare tutte le persone che hanno lavorato con me e dire: ‘che bella tournée è stata’”. Senza proclami. “Ma se mi incontrate per strada fate finta di non riconoscermi: potrei ripensarci”.