il Fatto Quotidiano, 2 marzo 2024
La prigione borghese di Simenon: Alain, marito di un’omicida, gli assomiglia un po’
Èl’incipit più bello letto in questi primi due mesi dell’anno. Fulminante: “Quanti mesi, quanti anni ci vogliono perché un bambino diventi un ragazzo, e un ragazzo un uomo? Quando si può affermare che la transizione è avvenuta?”. Cinque righe dopo: “18 ottobre. A Parigi pioveva così fitto e le raffiche erano così forti che i tergicristalli non servivano a niente”. Alain Poitaud è un cinico trentenne di successo e di mondo. Si è inventato un settimanale che vende un milione di copie. La sera del 18 ottobre rientra a casa e non trova la moglie Jacqueline detta Micetta, anch’ella giornalista (ma freelance). In compenso c’è un ispettore ad aspettarlo. Micetta ha ucciso, con un colpo di pistola, la sorellina Adrienne, impalmata da un alto papavero della Banca di Francia. La donna è già al Quai des Orfèvres e ha confessato di essere lei l’assassina, senza dire altro. Alain aveva una relazione con la cognata, terminata però un anno prima. Qual è il movente?
Georges Simenon scrisse La prigione nel 1967, uno dei suoi romanzi senza Maigret e che esce per Adelphi nella traduzione di Simona Mambrini. Alain assomiglia a Simenon: è un fedifrago seriale e beve parecchio. Lui e Micetta hanno un figlio che però vive in campagna, non a Parigi, con la tata e il giardiniere. “Si rendeva conto che per lui (Micetta, ndr) era stata soprattutto una presenza. Nei bar, nei ristoranti, in macchina. A destra, a pochi centimetri dal suo gomito”. Nella sua “transizione” che porta alla verità e alla soluzione del caso, l’ambizioso Alain – uno che divide il mondo tra quelli che le danno e quelli che le prendono – realizza il suo ossimoro esistenziale, fatto di una scintillante cupezza borghese in cui si è incapaci di stare da soli e di andare oltre il proprio egoismo.