la Repubblica, 1 marzo 2024
In morte di Paolo Taviani
Mi è difficile, anzi impossibile, parlare di Paolo Taviani senza farmi travolgere da un sentimento di grande tristezza che si mescola a una profonda gratitudine. Paolo è stato il mio mentore, il mio confidente nei momenti difficili e insieme a Lina e ai loro figli ha rappresentato una seconda famiglia. Al di là dell’ammirazione che ho per i suoi bellissimi film, la prima cosa che sento il bisogno di ricordare è un duplice insegnamento: la ricerca costante della verità, nella consapevolezza che si tratta di un anelito che non troverà mai completo appagamento, e il sincero rispetto delle idee altrui. Sono infinite le discussioni che abbiamo avuto sul cinema, la politica, la religione e l’esistenza in generale, nelle quali partivamo da punti lontani e a volte addirittura opposti: non c’è stata una volta che non abbia ascoltato, riflettuto e abbracciato i possibili punti di contatto, sapendo che si tratta dell’unica strada per raggiungere quella verità che sfugge sempre.
La sua formazione era marxista, e aveva vissuto con profonda angoscia il crollo di un’ideologia nella quale aveva creduto: il comunismo della sua gioventù non aveva nulla di violento ma nasceva dalla sincera convinzione che ogni essere umano abbia diritto alla condivisione dei beni e quindi alla felicità. Tutto ciò può apparire immanente e materialista, ma Paolo aveva anche una dimensione sinceramente trascendente: aveva intessuto da sempre un contatto con il mondo cattolico, grazie a Virgilio Fantuzzi, il gesuita che per molti anni ha firmato la rubrica di critica della Civiltà cattolica, e ultimamente era molto affascinato dalla personalità di papa Francesco: mi disse testualmente che aveva capito di aver vissuto così a lungo per aver potuto assistere al momento straordinario in cui il Pontefice, durante la pandemia, aveva pregato per il mondo intero in piazza San Pietro deserta. Era sinceramente commosso per quel momento, e da uomo di cinema aggiunse che quell’evento indimenticabile aveva anche una regia geniale: la pioggia, le luci azzurre del tramonto di marzo, il colonnato di Bernini, il Papa che cammina a fatica e porta su di sé tutta l’angoscia di tutto il mondo.
È stato un uomo di cinema sino alla fine, Paolo: negli ultimi mesi ha tentato di realizzare un film a episodi, nel quale voleva coinvolgere altri grandi registi con cui sentiva affinità, a cominciare da Ken Loach. Quando mi chiamò come assistente alla regia per La notte di San Lorenzo si rese conto immediatamente che il budget eratroppo risicato per potermi offrire quel ruolo, e all’ultimo momento mi promosse fotografo di scena pur di garantirmi un’esperienza sul set. Di quei giorni, per me estremamente formativi, ricordo che rimasi colpito dal modo in cui immortalò lo strazio di un violento fascista al quale viene ucciso il figlio: specie in quegli anni non era affatto scontato immortalare il rispetto per il dolore degli altri, anche quando costoro si erano macchiati di efferatezze e avevano lottato contro le nostre idee.
Quella scena mi rivelò che Paolo era in primo luogo un grande umanista, e questo elemento è presente anche nei momenti lirici dei suoi film, come la meravigliosa sequenza in Kaos in cui i bambini si rotolano nella cava di pomice di Lipari: nel suo cinema non esistono scene belle fine a loro stesse, ma raccontano sempre l’intimità degli esseri umani, nella gioia, nella speranza e nel dolore.
Ho raccontato l’episodio del mio cambio di ruolo perché credo che racconti un altro elemento importante della sua natura: la capacità di mettere in discussione ogni cosa per giungere a quello che riteneva giusto. Ritengo che non si offenderebbe leggendo che pensando oggi a lui mi viene in mente la massima di Ignazio di Loyola “todo modo para buscar la voluntad divina,” sapendo che per Paolo la verità e la divinità erano un’unica cosa. È stato lui a dirlo in uno dei suoi film, Il sole anche di notte :«Chi cerca Dio spesso non lo trova, chi cerca la verità trova anche Dio».