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 2024  marzo 01 Venerdì calendario

Intervistaad Alberta Basaglia

Mio padre centenario? Proprio non so immaginarmelo perché lui è morto giovane, aveva solo 56 anni, molto più piccolo di me oggi. E io di quel ragazzo ribelle ho sempre più nostalgia». Alberta Basaglia si ferma davanti alla casa in fondo a Calle Mocenigo Casanova dove ha vissuto con i genitori, il grande cancello verde con le punte dorate che sembra annunciare il regno dell’impossibile. In quell’appartamento sotto i tetti, con la piccola terrazza sul Canal Grande, è stata testimone di tutto il fermento che ha accompagnato la rivoluzione dei matti e dei diritti, già cominciata a Gorizia: il via vai degli psichiatri democratici, i trilli del telefono – «è Sartre!, ti sei ricordato di chiamare Foucault?» – Giulio Bollati seduto sul divano color salvia, le discussioni incandescenti. E poi loro, Franco e Franca, il cuore della rivolta.
Alberta Basaglia ne ha già scritto con Giulietta Raccanelli in un magnifico libro che ora esce da Feltrinelli con tre nuovi capitoli e una lettera inedita, Le Nuvole di Picasso. Oltre che la cura dei più fragili – per quarant’anni psicologa delle donne, dei bambini e degli adolescenti per il Comune di Venezia – dai genitori ha ereditato leggerezza e ironia. Allergica al monumento e ai centenari, ti mostra la piccola bottega artigiana di Campo Santo Stefano dove il padre si fermava per il gelato al gusto di stracciatella. E poi il grande archivio all’ultimo piano di Palazzo Loredan, che per un singolare destino sembra disegnato dall’architetto di famiglia: soffitti spioventi, legni chiari e l’azzurro del cielo vicino ai faldoni dei documenti, perché non bisogna mai smettere di sognare.
Perché le fanno impressione i cent’anni di suo padre?
«Sono tanti. Troppi. Una distanza lunare. E io invece me lo sento molto vicino, sempre di più, man mano che il tempo ci allontana».
In fondo era ancora giovane, anche per l’energia dirompente delle sue idee.
«Aveva la forza delle convinzioni, ma anche la forza della sua fragilità. Non faceva niente per nasconderla. Ed era quella la chiave di tutto».
Gli permetteva di entrare in contatto con le fragilità altrui?
«Sì, ma non solo. Incarnava un maschile protettivo e autorevole che però non si tramutava mai in prepotenza. Non ho mai avvertito in lui il potere prevaricatore del padre».
Come dimostrava questa fragilità?
«Nel positivo vedeva sempre il negativo. Ma questo non significava immobilismo o resa, tutto il contrario. Le cose si facevano lo stesso, ma nella consapevolezza della complessità e delle insidie costanti. Un’implacabile lucidità che nel quotidiano può rivelarsi impegnativa».
Da che cosa gli derivava?
«Era cresciuto unico figlio maschio in mezzo a tre sorelle, abbastanza solitario, incline a chiudersi in un costante rimuginio con se stesso. Come se il rapporto con le cose, negli anni di formazione, non fosse passato attraverso la mediazione di altre persone».
I medici lavorano con il dolore. Perché lui ha scelto di lavorare con il dolore psichico?
«Non gliel’ho mai chiesto. Le cose accadono anche per caso. Aveva studiato Medicina negli anni della guerra e già questo può avere influito. Così come deve aver avuto un peso l’esperienza del carcere: giovane partigiano, nel 1944, fu sbattuto in cella dai fascisti. Aveva vent’anni. Della sua prigionia non ha mai voluto parlare».
Come interveniva sua madre Franca Ongaro sulle fragilità di suo padre?
«Credo sia stata determinante. La prima volta che mio padre si affacciò sul manicomio di Gorizia ebbe una reazione di rifiuto. Non resse alla vista dei corpi umiliati, al puzzo lancinante. E fu grazie al sostegno di mia madre che scelse di restare. E di dare vita a quel lavoro che avrebbe restituito corpo, voce e dignità ai malati».
C’era tra i suoi genitori una sorta di divisione di compiti. Mentre suo padre era impegnato fisicamente a buttar giù reti e inferriate, sua madre si preoccupava di custodire la memoria del movimento, dandogli anche una sistemazione teorica.
«Quando lui tornava a casa la sera, ricordo che Franca gli si faceva incontro con quel suo modo affettuoso e leggero: “Tira fora le scarsele”, tira fuori le tasche. Un foglietto di appunti, il resoconto di una intervista, un appuntamento. Era il modo per evitare che la rivoluzione finisse in lavatrice»
È sua madre che ha scritto a macchina le opere più importanti.
«Sì, prima parlavano animatamente, poi lei picchiava sui tasti della Olivetti 22 e insieme rileggevano. Non scriveva mai sotto dettatura.
Franca era come una traduttrice: i bravi traduttori riscrivono i testi in una lingua comprensibile a chi legge. Mia madre rendeva intellegibili a tutti le posizioni teoriche di un movimento che andava reinventando anche il linguaggio».
Un ruolo che le è stato riconosciuto tardivamente, e forse non ancora del tutto.
«Sì, mi capita di sentire citare L’istituzione negata oLa maggioranza devianteattribuiti solo a Franco. In realtà diedero vita insieme a una terza figura che non era solo maschile né solo femminile ma un impasto di loro due. Qualcosa di molto speciale, che sul piano dell’elaborazione del pensiero segnava il superamento della tradizionale distinzione tra generi.
Ed è proprio qui che va cercata la scintilla di una rivoluzione che non ha riguardato solo la medicina, ma anche la società, la politica, la cultura. Il loro movimento ha messo in discussione non solo i manicomi, ma anche le gerarchie di potere, a partire dal vissuto dei protagonisti. A casa mia il personale era davvero politico».
Questo aveva dei costi?
«Credo che non fosse facile per mio padre questo genere di riflessione, quando nel movimento era di fatto il leader indiscusso. Io ricordo dibattiti moltoaccesi: tra marito e moglie, tra lui e “i cavalieri della tavola rotonda” che venivano a cena, tra tutti loro e il mondo esterno. A casa mia si litigava moltissimo, no ti capissi niente era il refrain più ripetuto. Ma il litigio anche più aspro non intaccava mai l’affetto che restava profondo: ci si confrontava con la diversità a partire dalle opinioni contrastanti».
È molto esplicita la lettera scritta da sua madre dopo la morte del marito: “Ora che la lotta contro e con l’uomo che amavo s’è conclusa, so che ogni parola scritta era una discussione senza fine con lui. Talvolta era un dialogo. Talvolta l’interlocutore svaniva e io restavo sola”.
«Confesso che quella lettera non l’ho mai letta fino in fondo. Credo che restituisca con franchezza la contraddizione tra la perfetta parità raggiunta nel laboratorio intellettuale e le fatiche nella pratica quotidiana, quando la coppia rivoluzionaria arretrava nei ruoli tradizionali. Ma su questo mia madre non ha mai smesso di combattere».
Dalle lettere inedite emerse dalla nuova sistemazione dell’archivio a Palazzo Loredan affiora spesso la stanchezza del rivoluzionario.
Come se davvero suo padre sia stato tentato più volte di mollare.
«No, non credo che abbia mai pensato di rinunciare. Ma certo è stata una battaglia faticosa.
Ogni giorno c’era un attacco sulla stampa locale, una denuncia alla magistratura, un impedimento burocratico. Loro stavano costruendo un nuovo mondo che ancora non esisteva, ma questo comportava dei rischi, non avendo la certezza dell’approdo. Io ricordo lo sperdimento di mio padre quando un matto liberato dalle catene arrivò a uccidere la propria moglie. Ma la rivoluzione non poteva fermarsi. Bisognava andare avanti, per dimostrare che era possibile un modo diverso di trattare la malattia psichiatrica».
Suo padre diventò una vera star, anticipando l’era dei grandi divi mediatici.
«Della personalizzazione avvertiva vantaggi e pericoli. È stato uno dei primi che ha usato il proprio corpo per far conoscere le nuove idee, ma l’esposizione fisica gli pesava. Trasformandomi in una vedette – diceva – finiscono per neutralizzare il messaggio politico. Ed è esattamente ciò che accade oggi».
Che cosa non le piace dell’anniversario?
«La santificazione di Basaglia. La beatificazione del medico buono che ha liberato i matti dalle catene. Mio padre non si è limitato a questo, ma ha dimostrato che è possibile un’altra società, dove tutti si fanno carico dei più fragili. Le catene sono inammissibili non solo nei luoghi del disagio psichico ma anche tra i milioni di senza voce annidati nel corpo sociale, poveri, migranti, disabili, diversi. L’incensamento spegne la carica civile dirompente: che c’entrano i diritti con un santo? Il rischio è che di quella rivoluzione resti solo il suo contrario».
Il Saggiatore ha ristampato “Morire di classe”, l’album con le fotografie di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin che tra i primi mostrarono la condizione manicomiale in Italia. Un titolo drammaticamente attuale.
«È l’unico libro basagliano che per anni non è stato ristampato: forse perché il titolo poteva apparire datato. E invece oggi si continua a morire di classe. Basta sostituire i matti con i migranti oppure con i poveri delle nostre periferie: stessa postura mortificata, lo sguardo perso, l’umanità disumanata, come scrive Brecht. Nessuno dice più che Basaglia è un farabutto, come succedeva 50 anni fa; ma mi sembra che il nostro paese guidato da una destra molto poco inclusiva vada in una direzione ostinatamente contraria».
Se n’è andato in tre mesi, stroncato da un tumore al cervello.
«Un amico gli comunicò la diagnosi. Lui capì immediatamente tutto – figurati, era un neurologo! – ma fece finta di nulla. Man mano che le forze venivano meno, si mise a letto. Ma tutto in casa continuava a essere come prima.
Le discussioni accese, il via vai di amici e colleghi in cucina, perfino il gioco. Io ho fatto a tempo a dirgli tutto quello che volevo. Finalmente l’avevo tutto per me. Padre e figlia. La malattia restava fuori dalla porta».
Morì nell’80, due anni dopo la legge 180 che impose la chiusura dei manicomi. Se non fosse morto?
«Avrebbe cambiato campo di battaglia. Quando la rivoluzione si fece legge, fu mamma a occuparsene, diventando parlamentare, quindi figura istituzionale. Non riesco a immaginare mio padre seduto sugli scranni del Senato. Piuttosto direttore di carcere, ancora sul fronte, sotto il diluvio, in movimento perpetuo. Magari vecchio, appoggiato al bastone, ma sempre con la schiena dritta, di questo sono certa».