Corriere della Sera, 3 marzo 2024
Il metodo Carlo Dionisotti
Sarebbe utile alla società che la figura del Maestro, con la maiuscola, ritrovasse il senso e il ruolo-chiave che ha avuto per le generazioni passate. Forse anche questo intendeva Carlo Dionisotti, il grande storico della letteratura, quando rispondendo a una domanda di Antonio Ria sulla funzione degli intellettuali indicava paradossalmente un compito non «direzionale» ma piuttosto «commemorativo e monitorio». Ovviamente, nulla di nostalgico o di funebre in quel «commemorativo»: si trattava piuttosto, secondo lui, di spiegare alle giovani generazioni i «precedenti» della cultura e della politica da tenere come bussola in positivo o in negativo. Per Dionisotti la storia è il fondamento della cultura e la trasmissione della storia avviene attraverso quelle figure di riferimento che sono i maestri.
Dionisotti stesso fu un Maestro, con la maiuscola. Nel dopoguerra fu lui, con Gianfranco Contini, il più acuto sovvertitore del doppio canone che risaliva a De Sanctis e a Croce. Dionisotti è stato un innovatore del «metodo storico» radicato nell’Ottocento positivista; cultore tenace di un’erudizione non fine a sé stessa ma aperta ai significati economici, giuridici, linguistici, politici, umani e ovviamente estetici; filologo a suo modo, non appassionato dell’edizione dei testi come obiettivo primario. Maestro pur non avendo cattedra, almeno in Italia: perché è stato, il suo, il caso speciale di una auctoritas esclusa dall’università italiana e rimasta in esilio a Londra dal 1947, professore al Bedford College fino alla pensione.
Fatto sta che comunque attorno a Dionisotti si sono formati gruppi di adepti spesso adoranti (alcuni enfatizzavano ironicamente il Dio- del cognome) che da lui raccoglievano indicazioni e consigli sempre generosissimi. Questi «allievi» gli rendono, appena possono, l’omaggio che merita: il frutto più recente è un volume edito dalla Società dei Filologi della Letteratura Italiana, che riunisce gli atti del convegno internazionale svoltosi a Messina tra il 15 e il 17 settembre 2021. Nel volume troviamo saggi di grande interesse che disegnano il diagramma della lunga fedeltà al Quattro e Cinquecento, campo privilegiato degli studi dionisottiani, a partire dalla tesi universitaria sulle Rime di Pietro Bembo (ne scrive Andrea Comboni) o da un Discorso sull’Umanesimo incluso nel suo libro più noto (se ne occupa Daniela Gionta), Geografia e storia della letteratura italiana, che uscì nel 1967 raccogliendo saggi dei precedenti vent’anni e che si presentava come una «sommaria revisione del processo unitario che di una letteratura toscana ha fatto una letteratura linguisticamente e geograficamente italiana». Non è un mistero che il suo temperamento portasse Dionisotti a puntare più sulle discontinuità di spazio e di tempo («le condizioni reali in cui gli uomini da che mondo è mondo vissero e vivono») che sulla più diffusa visione unitaria. Si aggiunge poi l’indagine a più puntate su Machiavelli (Machiavellerie si intitola un suo volume del 1980), dove si misurano gli errori del Segretario fiorentino sul piano personale e sul piano politico così come la forza e le novità del suo pensiero (lo racconta Simone Albonico) anche nel confronto con situazioni novecentesche. E infine, in tarda età, l’approccio ai moderni, compreso l’elogio dell’erudizione settecentesca («invero troppo trascurata quando non sia addirittura ingiustamente giudicata»).
Quel che più colpisce è la determinazione che anima Dionisotti nel ridare vita a fantasmi relegati per secoli nei retrobottega della storiografia. Ecco l’ammirazione per l’«immenso Quadrio», il gesuita valtellinese, il solo degno di essere affiancato a Girolamo Tiraboschi (ne scrive Corrado Viola). Ma ecco, ad apertura di pagine, tanti attori sconosciuti della cultura che Dionisotti va a pescare per primo o quasi: per esempio affrontando il testo-chiave su Chierici e laici, che illustra i precari rapporti tra Chiesa e Stato nel primo Cinquecento, ci imbatteremo in figure minori o minime come il canonico Basilio Zanchi, il carmelita Battista Mantovano, l’abate Zaccaria Ferreri eccetera eccetera. Dionisotti va sempre dritto alle cose, lavorando nel vivo dei materiali spesso inediti, interrogando testi contemporanei e limitrofi rispetto a quelli di partenza, per aprire lo sguardo all’ambiente, ai gruppi e a personaggi apparentemente secondari, e infine per tornare a bomba al fuoco testuale e magari ribaltare nozioni acquisite anche su autori ampiamente studiati (Foscolo, Leopardi, Manzoni…). E spesso Dionisotti ci stupisce nel creare inedite, esplicite o sotterranee, relazioni con la sua (la nostra) contemporaneità, come quando si concentra sull’Orazione dell’umanista Giovanni Guidiccioni, brillante discorso sulla sollevazione popolare lucchese del 1531 contro l’oligarchia cittadina corrotta e violenta. Esempio supremo di ricostruzione filologica e di studio «politico» con riferimento all’Italia che Dionisotti aveva sotto gli occhi nell’approssimarsi del 1945, anno di uscita di quell’edizione. Percorsi da una vibrante passione civile, gli studi di Dionisotti risentono sempre dell’uomo che si era impegnato nell’antifascismo, in contatto con amici torinesi operanti nei gruppi di Giustizia e Libertà; collaboratore di fogli vari del Partito d’Azione, come testimonia un prezioso volume di Scritti sul fascismo e sulla Resistenza edito anni fa a cura di Giorgio Panizza.
In realtà, gli interventi messinesi si interrogano sulla particolare filologia di Dionisotti, che diceva di non essere nato con il «bernoccolo» della filologia, anche se non mancano nella sua carriera scientifica le edizioni da autentico filologo del testo (ne scrive Claudio Vela). Alla mentalità filologica appartiene comunque l’attitudine del segugio di genio nell’esplorazione sistematica delle biblioteche, le principali italiane e poi la British Library e le altre collezioni inglesi. Questa sua propensione all’investigazione sul campo faceva affiorare opere a stampa e manoscritte trascurate o ignote, accrescendo fino a dimensioni sterminate il patrimonio di conoscenze dello studioso. Quel che ne emerge nel complesso è la naturale tendenza a rifuggire dalle astrazioni e dalle verità acquisite, l’intelligenza nel ricostruire i fatti e gli intrecci, le condizioni del tempo e del luogo, «andando dietro alla verità effettuale della cosa piuttosto che alla immaginazione di essa».
Tale estrema aderenza alla storia comporta una dimensione etica (non è lecito allo storico, osserva, quel che è lecito all’avvocato, «imbrogliare le carte per meglio provvedere alla difesa o all’accusa (…), illustrando quel che piaccia e convenga e scartando l’opposto»). Sono ferme convinzioni che convivono con la preoccupazione di misurare la distanza rispetto alla nostra epoca, per collocare i singoli problemi in una prospettiva storico-culturale (e politica) di lungo periodo, senza proclami, senza discorsi teorici e magari piuttosto con parentesi ironiche o con sottili accenni en passant.
Fa notare Renzo Cremante nel testo d’esordio, dedicato allo stile dello studioso e saggista, che Dionisotti si esprime con un alto tasso di coinvolgimento, di «tensione antagonistica», pur salvaguardando la «igienica norma inglese dell’understatement», lo scrupolo della precisione e il rigoroso equilibrio argomentativo nella varietà della prosa, anche nel divertito gioco di parole, nell’ironia, e qua e là nel sarcasmo. Nel conto della franchezza e del coraggio critico bisogna annoverare le molte recensioni scritte da Dionisotti in forma di saggio (qui Matteo Motolese analizza l’ampia critica alla storia della lingua di Bruno Migliorini): recensioni che talvolta diventavano severe stroncature senza complimenti. Ma la vis polemica di Dionisotti si estende anche alla magnifica e ricchissima attività epistolare: molto vivace lo scambio con Luigi Russo, riportato qui in un saggio di Vincenzo Fera (è lui «custode» del fondo dionisottiano dell’Università di Messina). Del resto, in una lettera del 1969 a Maria Corti, Dionisotti distingueva tra «poeti che succhiano e poeti che mordono», riconoscendo la sua predilezione per i secondi. Non solo una confessione di gusto ma certamente un’autodichiarazione di poetica.