Corriere della Sera, 3 marzo 2024
Intervista ad Alessandro Benetton
Alessandro Benetton la butta lì – una frase fra tante – in una conversazione lunghissima. Dice: «Ognuno di noi è quello che fa quando gli capitano le cose che non si aspetta». Alessandro Benetton ha il talento delle frasi perfette, perché a lui, negli ultimi anni, di cose inaspettate ne sono capitate almeno due di vasta portata. La prima: è diventato presidente della cassaforte di famiglia, lui che per anni si era considerato «all’opposizione». Ed Edizione non è solo una bazzecola dal valore patrimoniale netto di 13 miliardi di euro, con partecipazioni nei settori delle infrastrutture di trasporti e digitali, nel travel retail e food & beverage, nell’immobiliare, nel settore agricolo, in Mediobanca, in Generali e naturalmente nell’abbigliamento, ma era anche nel mezzo della crisi reputazionale seguita alla tragedia del Ponte Morandi.La seconda cosa inaspettata sono i tre figli adolescenti che decidono di vivere con lui quando finisce il suo matrimonio. Ieri, Alessandro ha compiuto 60 anni. Se gli chiedi il bilancio nel giorno di un compleanno così significativo, risponde: «Più che un traguardo, mi piace pensare a una tappa. Sono stato sempre troppo orientato verso il futuro per guardare troppo al passato».
A 28 anni, dopo una laurea a Boston, un master a Harvard, un’esperienza in Goldman Sachs, Alessandro era stato il primo a portare in Italia il private equity, fondando la 21 Invest che ha, a oggi, 22 società in portafoglio e un fatturato aggregato da quasi due miliardi di euro («un’impresa», sintetizza lui, «che mi ha dato credibilità e che mi fatto anche conquistare la libertà di dissentire nell’azienda di famiglia»). Dalla Benetton fondata dal papà Luciano, si era per lo più tenuto alla larga, fatte salve un paio di incursioni finite anzitempo (lui: «Diciamo che quando avevo la sensazione che ci fossero troppe mani sul volante, sono tornato a fare il mio lavoro»). Quando aveva 24 anni, ha presieduto la Benetton Formula vincendo con Michael Schumacher due mondiali piloti, uno costruttori e aprendo piste nuove per la famiglia («Era l’ingresso di un’azienda che faceva le maglie in un settore tecnologico e ha contribuito a darci credibilità per fare poi tante altre diversificazioni»).
A capo della holding di famiglia è arrivato a quasi 60 anni. Meglio tardi che mai?
«Qualcuno ha detto che ci vogliono trent’anni per avere successo in una notte. Scherzo… Diventare presidente di Edizione era un obiettivo che non mi ero posto. Assieme all’orgoglio di far parte di una famiglia importante, ho sempre vissuto l’esigenza di avere una strada indipendente. E ho sempre separato i rapporti coi miei familiari, sempre ottimi, dai miei punti di vista sulle attività aziendali, spesso dissenzienti. Poi, in un momento critico, le cose che avevo detto e pensato sono state ritenute corrette anche dagli altri azionisti e mi sono ritrovato nel posto in cui mai avevo cercato di essere».
Nell’autobiografia La Traiettoria, uscita per Mondadori nel 2022, racconta di quando era vicepresidente di Benetton Group e suo padre viene a trovarla, ascolta i suoi progetti, ma alla fine, in azienda, resta tutto com’è.
«Mio padre è stato un grande innovatore. Ma l’azienda poi diventa molto brava a replicare se stessa. E il successo può diventare nemico del successo: un’azienda è come il corpo umano, se smette di fare cellule nuove, muore».
Che ricorda del giorno del crollo del Ponte Morandi?
«Sono sempre stato fuori dall’attività di famiglia a parte la parentesi in Benetton abbigliamento. Ero in California a fare surf con mio figlio. Esco dall’acqua, apro i social e, senza sapere cos’era successo, trovo messaggi tipo: spero che tuo figlio se lo mangino gli squali».
La sua prima reazione?
«Oltre all’immenso dolore umano per la perdita di tante vite e per tante famiglie rimaste senza casa, quella di consigliare di chiedere immediatamente scusa».
Invece non arrivarono né le scuse dell’azienda né della famiglia.
«In questi casi, subentrano cattivi consigli degli avvocati e delle agenzie di comunicazione. Io, a titolo personale, le scuse le ho fatte e le rinnovo. Su Atlantia, che controllava Autostrade, non posso dire nulla perché Edizione deteneva solo il 30 per cento e nel Cda sedeva un solo Benetton. In Edizione, da tempo, zio Gilberto, in buonissima fede, aveva delegato tutto ai manager, forse anche per evitare conflitti nel passaggio generazionale. Ma di solito una delega simile avviene dopo che è stata costruita un’adeguata cultura aziendale, altrimenti, il rischio è che il management si senta titolato a prendere decisioni come se fosse la proprietà».
È la tragedia del Morandi che la induce a prendere le redini della situazione?
«Alla fine sì o forse è stato un fattore di accelerazione. Io ho vissuto da osservatore terzo quella tragedia che non potrà mai essere cancellata né dimenticata. Tante volte avevo fatto notare che delegare così tanto era una strada presa troppo in fretta. La tragedia ha reso palese quello che pensavo. Nello stesso anno sono scomparsi due dei miei zii, Carlo e Gilberto. A quel punto, ho scoperto che anche gli altri cugini la pensavano allo stesso modo. E insieme abbiamo deciso di tornare ai valori dei padri fondatori».
Quanto ci ha pensato prima di accettare la leadership?
«Penso che ognuno debba prendersi le proprie responsabilità. Ma confronto e decisioni condivise tra i soci per me da sempre sono un valore aggiunto».
In un’intercettazione che non ha giovato all’immagine della sua famiglia, si legge che l’Ad Giovanni Castellucci avrebbe detto «i Benetton volevano solo dividendi, dividendi, dividendi». Che ha pensato leggendola?
«Non posso parlare di un procedimento in corso, ma soprattutto non posso parlare perché non c’ero. Però posso dire che il mio pensiero emergeva forte e chiaro dalle mie intercettazioni di quei giorni. E posso dire che in famiglia ci hanno cresciuto con valori opposti: mio padre è stato il primo imprenditore italiano a mettere in fabbrica l’aria condizionata per gli operai; da sempre, sosteniamo l’arte, lo sport, i giovani e il nostro territorio. Ad Harvard, ho fatto mie le lezioni di Michael Porter sulla teoria del valore condiviso: per me, un’impresa funziona se, oltre ai profitti, fa cose per la comunità».
Come immagina il futuro di Edizione?
«In questi tre anni, Edizione è cresciuta, ma in discontinuità con il passato. A New York, a dicembre, ha vinto il Global Advocate of the year, che premia l’impegno nella sostenibilità: azzereremo le nostre emissioni entro il 2040, dieci anni prima del termine indicato dall’Europa. Intanto, Aeroporti di Roma è diventato un fiore all’occhiello grazie agli investimenti fatti, anche creando un hub dedicato alle startup di servizi aereoportuali più innovative. L’ex Atlantia, oggi Mundys, azienda con cuore e testa italiani, non gestisce più le autostrade del nostro paese, ma grazie al rapporto con Florentino Peres, nostro socio in Abertis, è leader nel campo delle infrastrutture a livello mondiale».
A quel premio a New York, c’era Sharon Stone, che ha appena detto di essere in cerca di un amore, vi siete conosciuti?
«È una donna straordinaria… Ma erano i miei figli che ho cercato con gli occhi prima di prendere la parola dal podio».
Com’è stato occuparsi di loro quando si è separato?
«Siamo stati tutti insieme durante il Covid e dopo. Mi sono trovato a occuparmi degli amori adolescenziali, dei dottori, del test d’ammissione alle scuole o delle loro prime esperienze lavorative. Ognuno di noi è quello che fa quando gli capitano le cose che non si aspetta e io, lì, ho capito e rispettato ancora di più le donne che lavorano e crescono dei figli. So di essere migliorato, sono diventato più paziente. Ora, i ragazzi sono negli Stati Uniti, anche se, a rotazione, li ho sempre a casa e, ogni giorno, passo mezz’ora al telefono con loro. Li vedo felici, sereni. Mi cercano, vogliono stare con me. Se c’è un’unità di misura per il rapporto tra padre e figli, questa mi piace molto».
Lei che rapporto ha con suo padre?
«Siamo due personalità forti, quindi, c’è voluto tempo per costruire il nostro rapporto, fatto di stima e di grande affetto e oggi è bello vederlo soddisfatto di come vanno le cose. Ai giorni nostri, la relazione fra genitori e figli è molto più orizzontale che verticale. Prima, l’autorevolezza del genitore veniva anche dall’autorità. Nel mio libro ho raccontato un ceffone ricevuto da mia madre, perché a scuola avevo chiesto la merenda ai compagni, facendo fare brutta figura alla famiglia».
E come è stato educato a riconoscere i suoi privilegi?
«D’estate, mio padre mi mandava a lavorare. La prima volta, eravamo io e mio fratello, 13 anni lui, 12 io, credo. Abbiamo pulito le caldaie dell’azienda e fatto i caddy nei campi da golf. A fine estate, avevamo guadagnato 15mila lire a testa e papà dice: festeggiamo, compriamo le scarpe da trekking. Poi, alla cassa, fa: avete i soldi, pagate voi. Abbiamo speso fino all’ultimo centesimo».
È riuscito a fare qualcosa di simile coi suoi figli?
«Gli intenti sono rimasti uguali, le modalità sono diverse. Educo di più con l’esempio e il dialogo».
Che cosa fanno oggi i ragazzi?
«Agnese lavora nel mondo dell’arte a New York e ha lavorato nella moda, ma credo farà anche altre esperienze. Tobias studia matematica applicata all’economia e arabo. Luce fa studi classici e ha fatto volontariato in India».
Lei è un padre affettuoso?
«A casa nostra, non mancano baci e abbracci. E quando guardiamo un film romantico, chi si commuove di più siamo io e Tobias, i due uomini di casa».
Nella sua storia, c’è un momento in cui lei e suo padre vi guardate negli occhi e vi dite qualcosa che segna una tappa importante del vostro rapporto?
«Non mi viene in mente, perché questa modalità non fa parte del suo modo di essere. La camera di compensazione affettiva è mamma, più avvolgente».
Da ragazzo, ha avuto fama di rubacuori. Tra le sue ex, Carolyn Besset prima che sposasse John Kennedy Jr. Che ricorda di lei, a 25 anni dalla sua scomparsa?
«Di Carolyn mi piaceva il suo essere originale, determinata. Non era il tipo di persona a cui potevi dire come doveva vivere. Gli amori giovanili hanno la caratteristica di restare indelebili forse anche perché non li hai poi vissuti, ma per noi due, il timing non era quello giusto».
E oggi l’amore? Lo ha messo in stand by?
«Ho tante ragioni per essere ottimista».