Corriere della Sera, 3 marzo 2024
Ritratto di Giuseppe Conte
La miccia casuale di questo racconto è una vocina perfida e lucida che soffia nella bolgia di una luccicante cena dove manca solo Jep Gambardella, una festa di compleanno in un ristorante sotto l’acquedotto Claudio, tra mozzarelle di bufala ed ex calciatori della Roma, Gianni Togni (che canta Luna ) e direttori di giornali, ruggenti cinquantenni con i capelli mesciati e, ad un certo punto, pure il mitologico Lotito, un po’ presidente della Lazio e un po’ senatore di Forza Italia. Perché nella grande bellezza romana c’è politica ovunque, si fa politica ovunque. E infatti, prima del brindisi, la vocina dice: «Sul giornale dovreste spiegare bene cos’ha in testa Giuseppe Conte. Noi del Pd, purtroppo, come sempre parliamo solo di quello che ci fa comodo. Invece presto dovremo fare, scusa il gioco di parole, i conti con Conte...».
Con la sua vanità assoluta (potete pensare quello che vi pare: ma la pochette bianca a cinque punte era un solido indizio). E poi con quella sua sulfurea ambizione. Diventata, con gli anni, pura ossessione. Questa: tornare a Palazzo Chigi per la terza volta. Una più di Bettino Craxi, per dire.
C’è una forza prodigiosa che custodiamo in noi e ci consente – nei talk tv e sui social, nei retroscena dei quotidiani – di trascorrere una settimana intera a parlare di «campo largo» vincente, di centrosinistra forte e unito, di populisti grillini e radical chic dem a braccetto, e di metterci poi dentro tutto, non solo Alessandra Todde che si prende la Sardegna, ma anche Luciano D’Amico, il professore di origini contadine che potrebbe sfilare la presidenza dell’Abruzzo a Marco Marsilio, un romano molto romano, pure lui sceso da Colle Oppio, dalla catacomba trasformata in sezione del Msi dove dev’essere passato per forza chiunque speri di fare carriera nell’establishment destrorso di questo Paese (anche se l’unico segato dalle sorelle Meloni è proprio il loro ex capo, Fabio Rampelli, che quella sede animò, tra suggestioni tolkeniane e inedite sensibilità green: ma siamo al dettaglio, più che al paradosso).
Però è proprio così che poi divaghiamo. Perdendo di vista il vero punto politico di questa stagione del centrosinistra: che ha la possibilità di tornare ad essere compatto – al di là di tante questioni divisive, dalle guerre in Ucraina e in Medio Oriente, agli aiuti in armi, all’ambiente, alla giustizia – solo ed esclusivamente a una precisa condizione. Quella di Conte: «È chiaro che il candidato premier, nel caso, dovrei essere io».
Lo sa questo Elly Schlein?
Sì. Forse. Probabilmente.
Secondo alcuni osservatori del Nazareno, Elly avrebbe ingaggiato da settimane un personale duello con la premier proprio nel tentativo di usare ogni polemica come un ascensore, sperando insomma di farsi «tirare su» dai media ed essere percepita dall’opinione pubblica come unica e autentica competitor: dove c’è Elly, c’è Giorgia. Sott’inteso: chi dovrebbe correre, un giorno, per la sua successione a Palazzo Chigi?
Io, pensa Conte. Che lì ci sono già stato.
Vero. Ma come?
La prima volta che nella sede romana del Corriere sentimmo parlare di lui fu nel 2018, una sera di fine maggio, al tramonto. Nessuno di noi l’aveva mai neppure sentito nominare. Conte o Conti? La fonte del M5S, al telefono, precisò: «Conte. Il tizio che un’ora fa, con una specie di casting, abbiamo scelto per fare il presidente del Consiglio, si chiama Conte». Uno di noi pignolo – nelle redazioni c’è sempre uno un po’ pignolo e maestrino – urlò: «La tua fonte vuole fotterci! Questo Conte non esiste. È un nome di fantasia... L’unico Conte che compare su Google è l’ex allenatore della Juve». La verità è che non è mai stato troppo chiaro come e perché i grillini arrivarono ad individuare il loro futuro premier in questo sconosciuto avvocato di Volturara Appula, un paesino nelle campagne del foggiano, che collaborando con il professor Guido Alpa, era a sua volta diventato ordinario all’Università di Firenze e consulente legale di note aziende ed enti. Lo stupore, comunque, si tramutò rapidamente in curiosità. Secondo lo schema pianificato da Di Maio e Salvini, che avevano architettato il governo gialloverde, l’incarico di presidente del Consiglio doveva infatti essere ridotto a qualcosa di simile ad una carica onorifica. Ed, effettivamente, un pomeriggio si sente Conte che, premuroso, chiede: «Luigi, posso dirlo questo?».
Il tipo, al polso, tiene un orologio con le lancette ferme, si definisce «avvocato del popolo», confessa la sua nazionalpopolare fede per Padre Pio e ha una voce di velluto. Quella dei finti buoni. Oggi possiamo essere più precisi: nessuno di noi cronisti aveva mai visto un camaleonte così feroce. Una specie rarissima.
C’è una cronaca forte come un’allucinazione. Perché Conte incontra Vladimir Putin a Roma, coltiva con cura un ottimo rapporto con Donald Trump («Oh, Giuseppi’, my friend!»), intreccia relazioni con la Cina di Xi Jinping. Poi, una sera, si siede con Angela Merkel e le spiffera che, nella sua maggioranza, qualcosa non funziona. «Davvero?», chiede lei. Lui annuisce, con una smorfia di rammarico. Chiamate un etologo: eccolo, sta per cambiare colore. E governo. Ci riesce quando Matteo Salvini – a torso nudo, sudato – al Papetee Beach chiede i «poteri assoluti». Allora Conte va al Senato e, tra gli applausi del Pd, pronuncia un discorso affilato. Il governo gialloverde diventa così giallorosso. E lui resta ancora lì, a fare il premier e ad entrare nella storia. Attraversando una pandemia, con il rosario dei morti e certe tragiche dirette social.
Quando poi Matteo Renzi spalanca il portone di Palazzo Chigi a Mario Draghi, l’avvocato sorride (ah, che sorrisetto) e esce, si sfila la cravatta, frulla via il fazzoletto dal taschino, litiga con Beppe Grillo, cambia lo statuto dei 5 Stelle, li trasforma in partito, e se lo prende dicendo: «Tornerò, e mi chiamerete ancora premier».
E allora no, non è un camaleonte. Ma un piccolo spietato coccodrillo. Qualcuno avverta Elly (che continua ad accarezzarlo con troppa disinvoltura).