Corriere della Sera, 2 marzo 2024
I funerali di Naval’nyj
All’inizio è un brusio quasi impercettibile. Il feretro viene portato fuori dalla chiesa in fretta, forse proprio per non concedere alcun tempo all’emotività, a quei gesti collettivi che rimangono nella memoria. Le voci diventano invece sempre più forti, salgono di tono, fino a formare un coro, diventano un canto collettivo. Navalny, Navalny. Nient’altro. Ma è già molto.
«Rossiya bez Putina!» gridavano i manifestanti di piazza Bolotnaya nell’inverno del 2011, invocando una Russia senza Putin. Da allora, nella capitale furono proibiti i canti sul suolo pubblico, quindi ovunque, in qualunque strada. L’unica volta che il divieto venne infranto fu nel gennaio del 2021, subito dopo l’ultimo e definitivo arresto di Alexei Navalny, quando una piccola folla si radunò davanti a casa sua e intonò quei due cori che anche oggi uniscono lo zar e il suo nemico giurato. «Lo voglio solo ringraziare per avere vissuto in questo modo». La signora che parla dalla diretta su YouTube ha 65 anni, tiene in mano i tradizionali garofani rossi e ovviamente non ha un nome, come tutti gli altri. Subito dopo parla una ragazza molto giovane sulla ventina. «Lui e Sakharov sono i miei cavalieri morali. Non riesco a spiegare perché sono qui, ma non potrei immaginare di essere altrove».
Reduci e sognatoriÈ un incontro tra generazioni diverse. Ci sono i maturi reduci di piazza Bolotnaya, che non accettavano di accantonare le speranze sorte dopo il crollo dell’Urss. Ci sono i giovanissimi che sognano una Russia pacifica e subito dopo l’invasione dell’Ucraina si ritrovavano nel McDonald’s di piazza Pushkin, riconoscendosi tra loro con un saluto identitario che oggi viene sussurrato per l’ultima volta dalle persone in coda. Privet, eto Navalny. Ciao, sono Navalny. La gente ha cominciato a radunarsi alla stazione della metropolitana Maryino tre ore prima dell’inizio della funzione religiosa nella chiesa dell’icona della Madre di Dio che risale al 1640 ed è ritenuta miracolosa. Ma è una copia, non si tengono reliquie di valore nell’estrema periferia di Mosca. L’originale si trova a pochi passi dalla piazza Rossa, a disposizione dei turisti, quando ancora ce n’erano.
Tutto transennato, fin dalla notte. Poco importa. Presto si forma una coda che cresce lungo la via Liublinskaya, a poche centinaia di metri dalla casa della famiglia Navalny, dove l’ingresso dell’androne è sbarrato. La polizia blocca la via corta dalla metropolitana alla chiesa, imponendo ai nuovi arrivati un lungo giro da dietro, e obbligandoli a scavalcare cumuli di neve compressa. Un chilometro, calcolano i più diligenti che misurano a passi la lunghezza. Quanta gente? Difficile dire, in assenza di dati ufficiali. Duemila? Certamente sì. Decine di migliaia? Una esagerazione. Sempre tanti, dopo due anni di guerra e di pensiero unico sulla guerra, dopo i gentili inviti delle autorità a restare a casa, come sempre. Comunque, qualcosa che in questo Paese non si vedeva da almeno cinque anni.
Pochi fermiÈ stato un addio commosso, pacifico. E dopo quei primi canti che hanno rotto il ghiaccio e la paura, sono stati intonati altri cori. No alla guerra, L’amore è più forte della paura, Russia senza Putin, Grazie, Aleksei, Non dimenticheremo, fino a un commovente Gli ucraini sono gente perbene. All’improvviso è divenuto chiaro che grazie alla caparbietà della famiglia Navalny questo funerale è al tempo stesso una eccezione e una occasione, come dimostra il bilancio mite dei fermi, appena 128 in diciannove città. Come se tutti avessero capito che nel prossimo futuro non ci saranno molte altre possibilità di manifestare. Fino a 260 mila utenti si collegano con il canale YouTube dal quale i collaboratori di Navalny rifugiati all’estero trasmettono in diretta. Anche i suoi familiari assistono da lontano. «Grazie per questi 26 anni di assoluto amore» scrive la moglie Yulia. «Cercherò di renderti orgogliosa di me». La figlia Dasha lo saluta così su Instagram: «Mio eroe, sei sempre stato e rimarrai un esempio per me».
Il bacio della mammaLa liturgia dura poco. Si dice che al parroco Anatolij Rodionov sia stato ordinato di non andare per le lunghe. Appena la madre si china sul corpo del figlio baciandolo sulla fronte come vuole la tradizione ortodossa, gli assistenti del servizio funerario chiudono subito la bara e la portano fuori in spalla. Quando i genitori di Navalny escono dalla chiesa sono avvicinati da parecchie persone: «Perdonateci di tutto». In mattinata sul cancello del cimitero è apparso il cartello «Oggi chiuso alle visite». L’ingresso è ancora sbarrato ma fuori ormai c’è una folla che preme. Gli slogan si fanno più duri. La bara viene posata dentro la tomba mentre risuona My way di Frank Sinatra. Pian piano, la polizia lascia passare la gente. Il cimitero doveva essere chiuso alle 17 ma le autorità, forse chissà con il benestare di chi non lo ha mai voluto nominare, annunciano che sarà aperto fino a tardi per accontentare tutti. Quando gli astanti lanciano nella tomba manciate di terra – un altro rito ortodosso – una tromba intona la melodia finale di Terminator 2, il suo film preferito.
All’uscita, qualcuno ha appeso su un albero un grosso pezzo di stoffa con una scritta blu. «Putin lo ha ucciso ma non lo ha spezzato». Solo il tempo dirà se questa giornata particolare, che in qualche modo soddisfa un bisogno di consolazione collettivo di noi occidentali, è stata anche l’inizio di una storia nuova. Intanto, questa terra gli farà da piuma, come dicono i russi.