Corriere della Sera, 2 marzo 2024
Curcio mezzo secolo dopo
La notizia, freschissima, è che ieri la Procura di Torino ha indagato Renato Curcio e altri tre brigatisti rossi per lo scontro a fuoco del 4 giugno 1975 in cui persero la vita l’appuntato Giovanni D’Alfonso e la terrorista Mara Cagol. La posizione dell’anarchico Bresci e del brigante Musolino è ancora sotto il vaglio degli inquirenti. E anche quel Romolo, già incriminato per l’omicidio di Remo, non avrebbe un alibi di ferro. L’inchiesta è stata sicuramente minuziosa e ha prodotto quattrocento pagine di atti, suppongo vergate in caratteri gotici da uno stuolo di monaci amanuensi. Quando Mara Cagol rapì il Gancia degli spumanti e si nascose in una cascina vicino ad Acqui Terme da cui la stanarono i carabinieri del generale Dalla Chiesa, io frequentavo con alterne fortune la quarta ginnasio, guardavo la tv in bianco e nero e telefonavo dalle cabine con i gettoni. Curcio era già allora il capo riconosciuto delle Brigate Rosse: che ci sia voluto mezzo secolo per appurare i sospetti nei suoi confronti è segno che la macchina della giustizia difficilmente riceverà multe per eccesso di velocità.
In questo benedetto Paese non finisce mai niente. Ogni tanto rispunta una commissione sul terremoto del Belice del 1968 o una tassa sulla crisi di Suez del 1956. La frase più frequente che si incontra lungo le strade è «Lavori in corso» e il panorama è punteggiato da case e villette lasciate a metà. In un contesto del genere, uno si domanda perché solo la giustizia dovrebbe agitarsi.