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 2024  marzo 01 Venerdì calendario

Il colpo di spugna del 1946

«Prendetelo, è un antifascista!», gridò balzando su una sedia Leo Longanesi, additando un giornalista che il giorno prima aveva pubblicato un velenosissimo articolo contro di lui. «Il grido, in quel clima, era talmente assurdo che tutti rimasero a bocca aperta, e io ne approfittai per trascinarlo via di forza», racconterà Indro Montanelli. C’è da credergli: la scena era avvenuta a Milano poco dopo la Liberazione «in un bar di via Montenapoleone rigurgitante di partigiani dell’ultima ora, anzi dell’ultima mezz’ora, col fazzoletto rosso annodato intorno al collo». Tra i quali chi non aveva mai osato, nel Ventennio, prendere per i fondelli il Duce trionfante come invece aveva fatto il geniale inventore di «Omnibus» spingendosi a scrivere battute dissacranti tipo «Sbagliando s’impera».
Così era l’Italia, secondo la celeberrima battuta attribuita a Winston Churchill: «Sino al 25 luglio c’erano 45 milioni di fascisti; dal giorno dopo, 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l’Italia abbia 90 milioni di abitanti». Battuta veritiera o bugiarda? Certo offensiva per gli oppositori uccisi dal regime come Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, Antonio Gramsci o spinti all’esilio in patrie lontane. Ingiusta verso tanti non-eroi vissuti sotto Mussolini senza esserne complici e ragazzini tirati su coi «13 comandamenti: quelli di Mosè più Credere, Obbedire, Combattere». Perfida con chi capì, magari un po’ tardi, ma capì e per riscattarsi si giocò la pelle.
Eppure una battuta condivisa, ad esempio nel romanzo Il clandestino, anche da Mario Tobino: «Tutti si riversarono per le strade. Ciascuno ammiccava furbescamente all’altro cittadino che lui era sempre stato antifascista. L’altro cittadino rispondeva con un ammicco di acconsentimento nel quale però c’era un segreto patto, che cioè va bene, ci credeva, ma anche lui lo era sempre stato, erano due antifascisti. Verso mezzogiorno si erano a vicenda tutti perdonati e la città aveva scoperto di essere sempre stata antifascista senza che nessuno se ne fosse mai accorto».
Una foto di gruppo utile per tornare oggi con Gianni Oliva a riflettere su quella svolta subitanea. Partendo fin dal titolo da quei 45 milioni di antifascisti. Il voltafaccia di una nazione che non ha fatto i conti con il Ventennio, appena edito da Mondadori.
Non tutti si regolarono così, spiega lo storico: in Francia l’epurazione coniugò «rapidità, selettività e intensità» con «170.000 processi per collaborazionismo, 7.000 condanne a morte, molte delle quali convertite in ergastolo, 28.000 funzionari pubblici rimossi dalla carriera» e così accadde in Norvegia («su 3 milioni di abitanti, 90.000 arrestati per filonazismo»), in Belgio, in Olanda... Da noi no: ci fu «la violenza della resa dei conti con cui si è conclusa la guerra civile, ma non la defascistizzazione condotta attraverso le procedure giudiziarie e l’accertamento delle responsabilità ai vari livelli».
Clemenza
L’amnistia di Togliatti, provvidenziale per molti fascisti, giunse solo 14 mesi dopo la Liberazione
Dice tutto, a farci caso, il tempo passato tra la Liberazione del 25 aprile 1945 e l’amnistia firmata da Palmiro Togliatti il 22 giugno 1946: solo quattordici mesi. Un battito di ciglia, in termini storici. Sufficiente a dare un colpo di spugna sulle peggiori nefandezze. Come il sostegno del mondo docente alle purghe nelle scuole dopo le leggi razziali, la volenterosa collaborazione fornita alle SS nei rastrellamenti degli ebrei, la ferocia delle invasioni in Jugoslavia e Grecia testimoniata da racconti come quello del paracadutista Raffaele Doronzo: «È facile capire che l’occupazione tedesca e italiana ha messo tutti i greci letteralmente alla fame. Ma intendo la fame vera, quella che fa girare i camion la mattina presto per raccogliere i morti».
Dicono tutto la strabiliante carriera di Gaetano Azzariti, il presidente del Tribunale della razza sdoganato da Pietro Badoglio, «ripulito» dal Migliore come braccio destro al ministero della Giustizia e salito in una manciata di anni alla presidenza della Corte costituzionale «senza abiure, senza ritrattazioni, senza distinguo. E senza che nessuno glieli abbia chiesti». O quella di Marcello Guida, che dopo aver diretto il confino fascista di Ventotene arrivò ai vertici della questura di Milano in curiosa coincidenza con la strategia della tensione, la bomba a Piazza Fontana e il «suicidio» dell’anarchico Pinelli, fino a trovarsi, il giorno dei funerali dei morti nell’attentato, a porgere ossequioso la mano a un uomo di cui a Ventotene era stato il carceriere, cioè il presidente della Camera e futuro capo dello Stato Sandro Pertini, che ostentatamente rifiutò l’omaggio. O ancora la benevolenza verso il generale Mario Roatta, già a capo del Servizio segreto militare del Duce negli anni dell’invio di sicari a uccidere in Francia i fratelli Carlo e Nello Rosselli (illuminante il libro Il delitto Rosselli di Mimmo Franzinelli) e poi protagonista della più feroce repressione degli sloveni («Non dente per dente ma testa per dente!») nella provincia occupata di Lubiana, ma salvato dall’estradizione in Jugoslavia e dall’ergastolo italiano da una «misteriosa» fuga sotto il naso dei carabinieri dall’ospedale militare a Roma seguita da un comodo rifugio in Vaticano e poi nella Spagna fascista di Francisco Franco fino al ritorno in Italia senza più pendenze (archiviate) nel 1966.
Come mai tanta indulgenza anche verso chi si era reso complice di crimini orrendi? Alcuni, risponde Oliva, se la cavarono come il commissario di polizia Ciro Verdiani, tenendo da parte preziosi dossier, offerti ai nuovi leader, in grado d’imbarazzare questo o quel potente compromesso col Ventennio. Altri furono sottratti alla giustizia dal cinismo riassunto in una lettera dell’ambasciatore Pietro Quaroni: «Comprendo benissimo il desiderio dell’opinione pubblica italiana di vedere citati in giudizio quei tedeschi che si sono resi responsabili di crimini di guerra in Italia. Ma noi siamo in una situazione per cui altri Paesi ci possono chiedere la consegna di colpevoli di vere o presunte atrocità. Il giorno in cui il primo criminale tedesco ci fosse consegnato, questo solleverebbe un coro di proteste da parte di tutti quei Paesi che sostengono di avere diritto alla consegna di criminali italiani». Meglio metterci una pietra sopra. A costo di lasciare liberi dei sanguinari assassini fascisti e nazisti.
«Poteva andare diversamente? L’amnistia Togliatti è stata un errore? Serviva una Norimberga italiana?», si chiede Gianni Oliva. Mah... «Le epurazioni sono un lusso che la storia ha potuto permettersi poche volte: per eliminare una classe dirigente, bisogna averne un’altra a disposizione, altrimenti incombe il rischio di derive…» La priorità, per Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, anche sotto la spinta degli Alleati, era «normalizzare la società dopo le convulsioni del conflitto e della guerra civile, garantire stabilità nella transizione dal fascismo alla democrazia, arginare le spinte più radicali...».
Del resto, come ricorderà Benedetto Croce (anche se i libri di storia preferiranno stare alla larga dal tema) «noi italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta tutti, anche coloro che l’hanno deprecata con ogni loro potere, anche coloro che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti che la guerra sciagurata, impegnando la nostra patria, impegnava anche noi, senza eccezioni, noi che non possiamo staccarci dal bene e dal male della nostra patria, né dalle sue vittorie, né dalle sue sconfitte...».