Corriere della Sera, 1 marzo 2024
Intervista al figlio di Maradona
Il Dna non mente. Stesso fisico, stessi capelli neri e ricci. Guardare Diego figlio è come guardare Diego padre. «Mi disse che ero uguale a lui». Ed è vero. Nei suoi occhi si torna nel passato. Le gioie, immense. I sogni, sconfinati. I dolori, atroci. La casa di Diego jr, a una manciata di traffico da Napoli, a pochi passi dal mare, è luminosa. Sono le 4 di un pomeriggio di febbraio. Diego Matias e India, 7 e 5 anni, sono tornati da scuola. «Per chi tifate voi? Fate sentire al giornalista?». «Napoli e Argentina». «E per chi sennò?», ride il padre.
La moglie Nunzia (9 anni di matrimonio) prepara il caffè, un rito immancabile in una casa napoletana. È silenziosa, ha occhi profondi, attenti. Che tutto sanno. Custodisce nel cellulare i ricordi di padre e figlio felici («sono una maniaca delle foto»). I video, i momenti più belli. Quelli intimi. «Ha tutto lei». «Qui è quando Diego baciò per la prima volta Diego Matias, scelse lui il nome di nostro figlio e lo battezzò. Fu magnifico». Un nuovo inizio. Perché nella vita dei Maradona c’è un prima («durato 29 anni») e un dopo («dal 2016 in poi»). Inferno e paradiso. Antitesi perfetta della loro vita. Un campione e un figlio abbandonato e poi, finalmente, ritrovato.
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Era davvero un padre?
«Sì, era un padre, mio padre. Da sempre anche quando non lo era, anche quando mi sono sentito abbandonato, rifiutato. Anche quando mi mancava tutto ciò che facevano gli altri bambini. Quando vedevo i miei amici con i loro papà, le recite, i lavoretti e io ero sempre e solo con mamma e nonno».
E che risposta si dava?
«Piuttosto che domanda mi facevo. Mi chiedevo: ma perché non posso vederlo? Ma non c’erano risposte».
Quando ha saputo che Diego Armando Maradona era suo papà?
«Da quando ho memoria, da quando sono piccolo. La cosa migliore che potesse fare mia madre fu dirmi da subito che ero il figlio di Maradona».
Qual è il primo ricordo che ha di lui?
«Il mondiale del 1990. L’Argentina venne a giocare a Napoli contro l’Italia. Lo vidi in televisione».
Lei è nato nel 1986, quando suo padre a Napoli e nel mondo era osannato come un eroe. Il mondiale, lo scudetto. Ma lui si sentiva più un dio o un diavolo?
«Vedi come stiamo ora sul divano a chiacchierare? Papà era così. Un uomo normalissimo a cui piacevano cose normalissime. Bevevamo il mate, fumavamo un sigaro e parlavamo per ore. Di calcio e della vita. Ballavamo».
La lunga battaglia per il cognome, il test del Dna, le cause civili, ma lui come ha provato a giustificarsi?
«Io non sentivo nulla a quell’età. Quando sono diventato Diego Armando Maradona avevo 7 anni, ma mio padre non si è mai opposto a nulla. Mi ha detto che all’epoca, era il 1993, c’erano circostanze che non gli permettevano di fare ciò che voleva. Non si sentiva libero e infatti non lo era».
A cosa si riferisce?
«Innanzitutto all’uso di droghe, mio padre era un uomo malato».
Avete mai parlato della sua dipendenza dalla cocaina?
«Non ne andava fiero, soprattutto con noi. Si vergognava. E ci metteva in guardia: “Non la provate mai, vi rovina la vita, non fate gli stupidi, è una droga infame”. Raccontava con orgoglio che ne era uscito».
Quando lo ha incontrato per la prima volta?
«A Fiuggi nel 2003. Era a una partita di golf. Avevo 17 anni, partii da Napoli con mio zio, arrivai al club, riuscii ad entrare oltrepassando la recinzione da un buco e da lontano lui mi fece cenno di avvicinarmi. Non fu scortese, mi diede un numero di telefono, ma nessuno mi ha mai risposto».
Cosa le disse? Come reagì quando la vide?
«Mi disse: “Io so che sei mio figlio ma per tutti non puoi esserlo adesso”. Io ero un figlio che non poteva essere riconosciuto. Lui desiderava essere mio padre ma era costretto a dirmi di no da un sistema che si era creato attorno. A suo modo fu molto affettuoso».
E le bastò?
«Mi tolsi un grande peso. Era il periodo in cui stava molto male e pensavo che sarebbe morto».
Tredici anni di silenzio e poi nel 2016 l’incontro a Buenos Aires. Come andò veramente?
«Partecipavo a una trasmissione di balli in Argentina e una sera mi chiamò Rocio Oliva, la compagna di Maradona, e mi disse: “Tuo padre ti vuole parlare”. Io tremavo».
Dall’emozione?
«No, dalla paura, pensavo volesse rimproverarmi per qualcosa che avevo fatto o detto. E invece mi invitò a cena e per la prima volta mi disse: “Chiamami papà”. Parlò solo lui, mi aveva visto in tivvù e voleva rimediare alla sua assenza. Non potevo crederci, furono ore lunghissime».
Di nuovo faccia a faccia, ma fu diverso?
«Sì. fu come se non ci fossimo mai persi. Io ero felice, lui con me. Ci siamo abbracciati, ci siamo raccontati. Il giorno dopo un’altra cena e poi un’altra ancora».
Non aveva conti in sospeso?
«Non è corretto, il problema è che avendolo ritrovato dopo 29 anni, non volevo riaprire lo scontro».
E lui come ha fatto a riconquistare il suo cuore?
«Mi ha subito detto: “Io mi sono comportato male, non sono stato un buon padre e per questo mi devi perdonare. Ma adesso contano il presente e il futuro. Sono felice che finalmente ti ho ritrovato. Costruiamo qualcosa assieme”».
E siete riusciti a costruirlo?
«Mio figlio Diego Matias lo ha battezzato lui, gli ha scelto il nome e lo ha baciato come avrebbe baciato me, come se fosse un altro suo figlio».
E a sua madre Cristiana? Le ha chiesto scusa almeno al telefono?
«Si sono incontrati a Napoli, ha chiesto perdono anche a lei e l’ha ringraziata per ciò che aveva fatto per me, per come mi aveva cresciuto».
Cosa pensava di Napoli e dei napoletani?
«Era innamorato. Chiedeva a Nino D’Angelo di mandargli le canzoni e adorava Carmela, capolavoro di Sergio Bruni che lui pensava fosse di Mauro Nardi. Del primo scudetto mi diceva che la gioia fu incontenibile perché sentiva di aver vinto per una città intera ed era convinto che quel giorno fu per lui l’apice della felicità».
Più del mondiale vinto in Messico?
«Era un discorso diverso perché l’Argentina era la sua terra e si commuoveva ogni volta che toccava i colori della sua maglia, ma in Messico non c’era il suo popolo a festeggiare con lui».
E del gol del secolo contro l’Inghilterra, quello dove dribblò cinque giocatori e il portiere Shilton, ne avete mai parlato?
(Ride) «Ne parlava con una tale naturalezza da fare impressione. Diceva sempre: “Sì, fu un bel gol, ho ricevuto tante botte in quei dribbling ma non potevo fermarmi”. E non si fermò».
E della Mano de Dios?
(Ride ancora) «Alcuni compagni gli consigliarono di confessare, e disse: “Non l’avrei mai fatto”».
E di Pelè?
«La sua sfortuna, raccontava, è stata che sono nato io. Altrimenti sarebbe stato il più forte al mondo. E invece sono io».
Avrebbe cambiato squadra?
«In Italia mai, mi diceva che era disgustato dalle offese sui campi delle città del Nord perché sentiva la sofferenza dei napoletani. Avrebbe voluto il Marsiglia e Ferlaino disse di no».
E di Ferlaino cosa pensava?
«Era molto arrabbiato con lui ma provava anche tanta tenerezza. “Non voglio incontrarlo”, ripeteva. Poi invece a Napoli lo abbracciò: “Resta sempre il mio presidente”».
E quei rapporti con la camorra?
«Disse che in un momento della sua vita, nel periodo finale della sua storia a Napoli, si era sentito protetto da loro. In città non riusciva più a vivere».
Ha mai saputo che faceva il calciatore?
«Certo, mi seguiva anche quando ero piccolo, si informava su di me a Napoli, quando ancora non avevamo rapporti. Il suo rammarico fu di non avermi potuto dare i consigli giusti».
Il 25 novembre del 2020 la morte. Lei era in ospedale con il Covid, quando lo ha sentito l’ultima volta?
«Il giorno dopo l’operazione. Mi disse che era andato tutto bene, che si sentiva forte e che non dovevo avere timore».
Qual era il sogno di Maradona?
«Allenare il Napoli».
E il sogno segreto?
«Vedere tutti i suoi cinque figli seduti allo stesso tavolo».