Robinson, 29 febbraio 2024
Storia dei Preraffaelliti
Nel 1873 il pittore inglese Edward Burne-Jones completò l’acquerello Love among the ruins. Nel suo terzo viaggio in Italia, da poco concluso, aveva perfezionato la conoscenza dell’arte del Rinascimento con lo studio di Piero della Francesca, Luca Signorelli, Paolo Uccello. Nei primi due (1859, 1862) si era dedicato a Michelangelo. Burne-Jones – scrive la massima esperta dei Preraffaelliti Elizabeth Prettejohn, tra i curatori della grande mostra di San Domenico di Forlì – «è il supremo esempio della fusione di studio scrupoloso e ispirazione artistica che caratterizza la risposta inglese al Rinascimento italiano». Fin dalla prima volta fu esposto, suscitò unanimi consensi, e fu considerato il suo capolavoro (in seguito ne realizzò una versione a olio).
Come nell’omonima poesia di Robert Browning (1855) in cui la forza dell’amore si oppone alla caducità del potere terreno, due giovani (il pittore stesso e la sua amante) si abbracciano fra le maestose rovine di una città. Edifici classici, decorati da bassorilievi e grottesche; forse templi, come suggeriscono i rottami delle colonne e il capitello ionico che funge da sedile: ma ormai ricoperti di vegetazione. Le loro vesti blu spiccano, elettriche e metalliche, sul grigio corroso dei marmi e i petali diafani delle rose selvatiche. Il disegno è magistrale e le forme plastiche, come nei pittori fiorentini; la composizione un puzzle di citazioni di Mantegna, Crivelli, Piero della Francesca; la dislocazione asimmetrica dei protagonisti e la rinuncia alla prospettiva conferiscono a Love among the ruines un’armonia strana, insieme classica e moderna. E un significato inatteso. L’Italia del Rinascimento è un mondo perduto. Ma l’amore per esso non è né nostalgico né reazionario, e fa fiorire un’arte nuova.
È proprio questo il frutto del movimento preraffaellita, della cui seconda ondata Burne-Jones è stato l’esponente di maggior successo. Sancito, nel 1885, dall’ingresso nella Royal Academy su invito di Frederick Leighton: i due erano amici dai tempi del college. Amante dell’Italia e non solo della sua arte (aveva simpatizzato per le idee risorgimentali), Leighton si era costruito un palazzo in stile rinascimentale, collezionava capolavori (come il taddeo Taddei di Michelangelo), nonché mobili e raffinati arredi d’epoca – e sarebbe poi stato nominato baronetto dalla regina Vittoria e dal consorte principe Alberto (mecenate, si doveva a lui l’impulso al restauro in stile neogotico di Westminster). Da quando nel 1878 era diventato presidente della Royal Academy promuoveva la conoscenza dell’arte in Inghilterra, e dell’arte inglese nel mondo. La maniera preraffaellita avrebbe continuato a irraggiare la sua influenza: alla prima Biennale di Venezia del 1895, William Michael Rossetti era presidente della giuria; Leighton, Millais, Burne-Jones e Anna Tadema nel comitato di patrocinio, e Hunt, Watts e altri epigoni preraffaelliti fra i pittori selezionati. Burne-Jones avrebbe ispirato altri artisti, con gli arazzi del Santo Graal esposti nel 1900 all’Expo Universale di Parigi.
A questa terza generazione di neo-preraffaelliti appartengono i dimenticati Cooper, Ricketts, Shannon. Il movimento ebbe anche un’appendice italiana, con l’associazione di artisti “In Libertas”; fondata nel 1866 da Giovanni Costa e sostenuta da Angelo Conti, D’Annunzio, e poi dal Convito di Adolfo De Bosis: ebbe il suo artista di punta in Giulio Aristide Sartorio. Il gusto preraffaellita sopravvisse alla morte, nel 1901, della regina Vittoria – che pure concluse un’epoca – e alla progressiva dittatura delle avanguardie artistiche del Ventesimo secolo. L’ultimo quadro “neo-liberty preraffaellita», Maria Virgo di May Louise Greville Cooksey, data al 1915.
Ma forse a causa della longeva pervasività del’estetica preraffaellita – che si estese all’arredamento, alle arti decorative, alle illustrazioni dei libri, e trapassò nel simbolismo e nel decadentismo – se ne disconosce il ruolo nel rinnovamento della pitturaq ottocentesca.
Invece l’avventura preraffaellita era iniziata – non per caso nel 1848 – nel segno della rivolta. Il 10 aprile, due studenti borghesi delle scuole della Royal Academy, il discolo William Holman Hunt e il secchione John everett Millais (il migliore degli allievi e beniamino dei docenti), partecipano a una manifestazione nella quale si invoca “la carta del popolo”. Ovvero, il suffragio e lo scrutinio segreto (per i maschi dai ventun anni in su). Il movimento cartista esprime il bisogno di democrazia di una società in prepotente cambiamento: sfigurata dall’industrializzazione, dal brutale dominio del capitalismo, dalle disuguaglianze. È la versione dolce della “primavera dei popoli” che da gennaio rivoluziona l’Europa, e rovescia con violenza regimi e troni: mentre Hunt e Millais protestano in strada, a Milano, a Berlino, in Prussia e a Parigi si innalzano barricate. La loro partecipazione è la spia di una sensibilità sociale e politica che appare oggi sorprendentemente attuale. In autunno, insieme ad altri, si riuniscono in casa di Millais per studiare un volume di incisioni di Carlo Losinio dagli affreschi del Campo Santo di Pisa.
I sette giovanissimi pittori (hanno fra i 19 e i 23 anni) sono arrabbiati, irrequieti e ambiziosi: «Con tempra di ribelli, volevano una rivolta e fecero la rivoluzione», affermò, cinquant’anni dopo, William Michael Rossetti, fratello minore di Gabriel e membro della “combriccola” ( dotato di minor talento, divenne il cronista e poi lo storico del movimento). Intransigenti, hanno ancora idee confuse. Gabriel Rossetti ha letto
Memoirs of the early italian painters
di Anna Jameson (1845), bibbia divulgativa dei “primitivi” italiani. Il padre, patriota di Vasto esule a Londra, gli ha trasmesso il gusto della cospirazione e della fratellanza, e la passione per Dante ( nome che Gabriel finirà per anteporre al proprio): al poeta fiorentino dedicherà svariati quadri, nonché la traduzione inglese della
Vita nova.
Hunt ha letto Modern painters
(1843) di Ruskin, accogliendone l’invito ad apprezzare la semplicità e la verità. Tutti sono cresciuti nel clima del revival medievale, gotico e cristiano che dominava la cultura inglese degli anni Quaranta, intuiscono l’opposizione simbolica fra materialismo industriale e misticismo spiritualista, e si oppongono al trionfo della macchina. Detestano la “fiacca rispettabilità” e la pittura consolatoria dei loro maestri, sputano su Rubens, vogliono azzerare i padri (Raffaello e Joshua Reynolds), e fare a modo proprio. Accettano alcuni spiriti guida, e hanno stilato una disordinata e incoerente lista di 57 artisti Immortali, fra i quali Cristo ( cui assegnano quattro stelle, come in una recensione su tripadvisor) e gli scrittori Dante, Boccaccio, Shakespeare, Keats, mentre fra Bellini, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Giorgione, Tiziano, Tintoretto, l’unico “primitivo” è ancora Beato Angelico ( scopriranno gli affreschi di Giotto solo quando l’Aroundel Society li rivela al pubblico inglese).
Ma intanto si chinano sulle incisioni del Campo Santo di Pisa: «Ispirati dai tratti ingenui di franca espressività e grazia spontanea che aveva reso l’arte italiana così vigorosa e progressista», decidono di unirsi in una confraternita (brotherhood) e creare un’arte nuova. Non hanno ancora un nome. Rossetti propone “paleocristiani”. Prevale “preraffaelliti”, poiché ritengono, come poi avrebbe scritto Ruskin, che Raffaello e i seguaci di Michelangelo abbiano isterilito l’albero vitale della pittura. L’Italia – vagheggiata e lontana (Rossetti non ci metterà mai piede) – diventa il loro antidoto all’Inghilterra vittoriana.
Per divulgare le loro idee, fondano una rivista,
The
Germ
( che regge solo quattro numeri). Nel 1850 Rossetti vi pubblica un racconto su un pittore del Duecento, ispirato a Giunta Pisano, Hand and soul: è il manifesto teorico della brotherhood. Sostiene qualcosa di ovvio per noi, ma inaudito nel positivismo trionfante. L’arte non sempre progredisce, ma semplicemente cambia. Intanto cominciano a esporre i loro quadri. Luminosi e freschi, ma irregolari e sbilenchi, agli occhi dei contemporanei. Rossetti disorienta conL’infanzia di Maria proposta nel 1849 alla Free Exhibition nell’Hyde Park Corner, e con Ecce Ancilla domini, la spoglia e realistica annunciazione del 1850. Addirittura
ripulsa suscita il provocatorio Cristo in casa dei genitori di Millais. I critici inglesi sono allergici ai soggetti religiosi ( per inveterata avversione al cattolicesimo), prediletti invece dai Confratelli – attratti da temi morali, sociali, politici. Inoltre la povertà della sacra famiglia, raffigurata al lavoro in una falegnameria tra chiodi e tenaglie, trucioli e detriti, pare sovversiva ( stupefacente che la recensione più malevola l’abbia scritta proprio Dickens, il narratore degli esclusi: Maria gli sembrò un’alcolizzata, orribile nella sua bruttezza). Altri deploravano che Gesù sembrasse un ebreo rachitico. Incuriositi dalle feroci stroncature, Ruskin e la regina Vittoria vogliono vedere il quadro ( lei se lo fa portare a Buckingham Palace). Ruskin ne scrive in alcune lettere al Times – non entusiasta, ma legittimando il pittore e la tendenza sua e degli altri verso la verità, anche sgraziata, della rappresentazione. Si scatena un dibattito sul rapporto fra modernità, realismo e simbolismo che rende i confratelli d’improvviso famosi.
The woodman’s daughter di Millais, nonostante il messaggio polemico ( è una tragica storia d’amore interclassista, analoga a quella del suo Isabella ispirata dalla novella di Boccaccio, cui i fratelli hanno assassinato l’amante indegno del suo rango), incontra maggior comprensione. Come The twelfth night di Deverell, che col pretesto della scena shakespeariana raffigura i confratelli, quasi in segno di affiliazione ( tuttavia nessuno acquistò il quadro finché il pittore visse). Ma il sodalizio ormai si è sciolto e Rossetti, Millais e Hunt proseguono ciascuno per la sua strada.
Intanto la National Gallery acquista antichi maestricome Lippi, Angelico, Gozzoli e Crivelli, e si forma una nuova generazione di storici ( come il nostro Cavalcaselle, esule a Londra, Walter Pater, che fra il 1869 e il 1877 pubblicò monografie su Botticelli, Luca della Robbia e Giorgione, e Symonds, coi sette volumi di Renaissance in Italy, 1875-86) e di artisti, che sancisce la definitiva “rinascita del rinascimento” in epoca vittoriana. Negli anni Sessanta sbocciano Burne- Jones e William Morris, pure loro “confratelli” mossi da analoghe finalità insieme politiche ed estetiche: fondano un’azienda, prefiggendosi di restituire alle arti decorative e agli artigiani il rango che avevano nel Medioevo, e di fabbricare manufatti belli per le abitazioni comuni: tessuti, carta da parati, ceramiche, gioielli, oreficerie, vetri, sedie – perché sono progressisti e socialisti e ritengono che la bellezza debba essere alla portata di tutti ( da questo progetto si sviluppò poi Arts and Crafts). I successori dei ragazzini incendiari del 1848 morirono “pompieri” – benestanti, anziani, baronetti ( tutti epigoni, tranne Millais). Non i precursori, fedeli al loro radicalismo. Non Hunt, ridotto all’inazione dalla cecità, né Rossetti, dannato dall’alcolismo; non la sua modella Elizabeth Siddel, scrittrice inghiottita dalla depressione e dalle droghe; non la sua modella governante e amante proletaria Fanny, ricoverata in manicomio; non Maria Zambaco, la giovane amante fra le rovine dipinta da Burne-Jones, che alla fine della loro relazione gli propose di suicidarsi nel Regent’s Canal, e poi cercò di diventare scultrice. Ma questa è un’altra storia…
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