la Repubblica, 28 febbraio 2024
Pasolini in scena
Il primo incontro fu nel 1962, quando avevo 12 anni. Una foto su un rotocalco, immagine in bianco e nero. Pasolini in maniche di camicia durante le riprese di Mamma Roma. Una camicia da ergastolano, con i numeri stampati sopra, quelle che si compravano ai mercatini di Livorno o di Forcella. Portava gli occhiali scuri e tutto l’insieme aveva un che di nero e pericoloso, enfatizzato dal commento sprezzante della didascalia. Qualcosa su Pasolini comunque già la sapevo. Che aveva girato Accattone – titolo poco raccomandabile! – e che era uno scrittore importante ma anche un tipo “strano”. In famiglia vi si accennava con imbarazzo, senza spiegare perché. Le antenne ipersensibili dei fanciulli mi resero chiaro che la stranezza aveva a che fare con la sessualità.In pochi anni la figura di Pasolini divenne centrale nella mia formazione. Immenso fu il privilegio di essergli stato contemporaneo, di averlo potuto leggere e vedere i suoi film in tempo reale, io adolescente, lui vivo, attivo, pugnace. Per l’appunto, accanto. Era per me l’esempio di come dovevano essere gli intellettuali: cani selvatici e affamati ai limiti del bosco e non cagnolini scodinzolanti al focolare, in attesa di avanzi accompagnati dalla carezza o dalla pedata del padrone. C’è voluto tempo prima che l’Italia lo digerisse. Oggi la beatificazione è compiuta e perfino stucchevole: santino davanti al quale inginocchiarsi citandone le frasi come slogan, claim pubblicitario o pensierino dei cioccolatini. Uno che non si legge e di cui non si guardano più nemmeno i film. Allora invece la sua figura spaccava, divideva, obbligava a pensare. Oggi lo diremmo “scomodo”, e Pasolini ne riderebbe alla sua maniera buffa e muta, spalancando la bocca e gettando la testa indietro come un ragazzo.
Pasolini non fu Santo Subito. Il fastidio c’era ancora quando girai il mio primo film nel 1980, Maledetti vi amerò, dove la sua morte orrenda occupava grande spazio. Non erano passati che cinque anni e ne ero ossessionato, esattamente come per quella di Aldo Moro, avvenuta solo due anni prima, con strazio simile e conseguenze che sarebbero state uno spartiacque per tutti e non solo per me. Ero poco più di un ragazzo, ma “sentivo” che l’eliminazione di quelle due figure pubbliche, diversamente indispensabili, avrebbero inciso per sempre nelle nostre vite, anche se mi illudevo che ne avremmo chiesto conto e che i responsabili non l’avrebbero fatta franca. Oggi so che a nessuno importa più nulla di nulla e che “… il saggio – come suggerisce l’esagramma 12.P – Il Ristagno nel libro dei mutamenti I Ching— nasconde i suoi pregi e si ritira in segretezza”. Due esecuzioni di cui l’opinione pubblica ha finito per stancarsi smettendo di pretendere spiegazioni. Altra macchia indelebile.Julien Benda nel suo Il tradimento dei chierici parla di come gli intellettuali, allevati per contribuire alla stabilità della tradizione, l’abbiano invece tradita, diventando rivoluzionari e minacciando l’ordine sociale. Pasolini, che proveniva da una cultura letteraria la più squisita, è stato un “traditore” perfetto. Eppure questo suo spirito critico, lungi dall’essere solo apocalittico e distruttivo, aspirava invece a un ordine superiore. Non era quello della rivoluzione né quello spirituale religioso, per quanto rispettasse entrambi, forse dolendosi di non potervi appartenere. L’impossibilità di imbrancarsi, di farsi classificare, la renitenza all’arruolamento, sono il suo lascito, la sua vera eredità. Non appartenere, non giurare fedeltà, non indossare uniformi. Indipendente e solo, prigioniero di un’intelligenza che, anziché compiacersi del ruolo cruciale che tutti finirono per riconoscergli, lo portò piuttosto a soffrirne.Nel 1995, vent’anni dopo la sua morte, scrissi con Stefano Rulli e Sandro Petraglia un film sulla sua assenza,Pasolini, un delitto italiano.La nostra prima idea, ispirandoci alla bella biografia scritta da Enzo Siciliano, fu di raccontarne tutta l’avventurosa biografia. Solo la televisione avrebbe potuto realizzarla, ma la televisione del 1994 ci avrebbe sbattuto le porte in faccia e nemmeno provammo a proporlo. Decidemmo di concentrarci sulla sua morte, non tanto per raccontare la detection del delitto, quanto per mostrare ciò che l’Italia aveva perso con lui, il vuoto che lasciava non solo fra gli intellettuali suoi interlocutori ma anche fra i detrattori e nella gente comune, in quel popolo che l’aveva amato o detestato al punto da tollerarne il linciaggio. Era importante ricostruire la dinamica del delitto, l’inconcludenza delle indagini, la comoda soluzione di attribuire tutte le responsabilità al solo minorenne Pelosi, mentre per noi era evidente che si trattava di un delitto di gruppo e, forse, di un’eliminazione programmata. Il film fu presentato a Venezia nel 1995 ed ebbe ottima accoglienza, per un paio d’anni non feci altro che accompagnarlo nei grandi festival internazionali, a riprova dell’ammirazione e curiosità che Pasolini ha sempre suscitato nel mondo.In ognuno dei miei film successivi Pasolini è riapparso come un fiume carsico. Affiorando in una frase, nel brandello di un’immagine o in un titolo (per esempio: La meglio gioventù ), quasi per bisogno di tornare ogni tanto alla sua bussola. Nel frattempo il Pasolini “politico” era stato ampiamente accolto fra gli Immortali e reso così accademico che alcune sue locuzioni sono diventate perfino il gergo (il Palazzo!) di quelli che abborriva. Amen.Oggi mi appassiona solo capire chi era e cosa lo faceva soffrire, né mi basta ormai fissarlo nel suo dolore “civile”. Insieme a Luigi Lo Cascio – che già aveva realizzato uno stupendo spettacolo su Pasolini, Il sole e gli sguardi – abbiamo cercato la sua dimensione più intima ritenendo di trovarla più nella poesia che nella prosa corsara. Non credo più che Pasolini volesse essere un profeta. Il suo era un grido da raccogliere per fronteggiare il declino, anziché sorriderne come davanti a una Cassandra jettatrice. Più che la desolata nostalgia dell’Italia che non c’è più, ci ha affascinato la viscerale persistenza dell’amore famigliare (la madre Susanna, il fratello Guido) e quanto fosse per lui necessario mettersi a repentaglio addirittura fisicamente, per decifrare e descrivere quello che vedeva. Un Pasolini fragile anziché perentorio, figlio e fratello anziché padre e guida. PA’,lo spettacolo che Lo Cascio interpreta con tanto dispendio di sé, cerca di raccontarlo in questa chiave senza preoccuparsi di apparire parziale o arbitrario. D’altra parte ognuno ha il suo Pasolini, com’è giusto che sia, e questo non è che il nostro. Anzi il “suo”, perché non c’è parola, virgola, capoverso che non provenga dalla sua opera, tanto che potremmo definirlo un’autobiografia in versi.