la Repubblica, 28 febbraio 2024
Il santo bevitore è ancora con noi. Trent’anni dalla morte di Chales Bukowski
L’altro giorno sono entrato in una libreria di Londra per comprare un libro di Charles Bukowski da regalare al boyfriend della figlia di mia moglie, un ragazzo inglese di 23 anni che ama molto la letteratura e a cui era già piaciuto Panino al prosciutto, un romanzo del “vecchio Buk”, come lo chiamiamo noi suoi aficionados, che gli avevo suggerito. Di libri ho finito per prenderne due: Post office di Bukowski e Chiedi alla polvere di John Fante, uno scrittore che con Bukowski ha molto in comune, il cui romanzo in questione è preceduto da una fenomenale introduzione dello stesso Bukowski. Quando sono andato a pagare, la giovane cassiera mi ha detto: «Ah, le piace Bukowski? Io adoro le sue poesie». Ho risposto che, quasi mezzo secolo dopo averlo scoperto, non solo Bukowski mi piace ancora, a differenza di certi scrittori che si amano da giovani e assai meno in seguito, ma nella mia giovinezza trascorsi un indimenticabile pomeriggio a bere birra insieme a lui, nella sua casa di Los Angeles. Quasi avesse incontrato per interposta persona il suo eroe letterario, alla cassiera sono brillati gli occhi. Lo racconto solo per dire quanto il “Nobel dei bassifondi”, come lo ribattezzò il settimanale americano Time, continui a fare proseliti, generazione dopo generazione.
A trent’anni dalla sua scomparsa, il 9 marzo 1994, all’età di 73 anni, di Bukowski continuano a uscire anche libri: raccolte di poesie, corrispondenza privata, estratti sui più svariati argomenti, dallo scrivere all’amore, dalle corse dei cavalli ai gatti. Autore di mezza dozzina di romanzi, centinaia di racconti, migliaia di poesie, di Bukowski sono state pubblicate una sessantina di opere e non è ancora finita: la sua produzione inedita, talvolta sepolta in rivistine underground, è sterminata, i suoi titoli sono tradotti in decine di lingue (in italiano dalla mirabile penna di Simona Viciani per Feltrinelli e Tea) e non smettono di vendere, trovando sempre nuovo pubblico. Per uno che fino ai cinquant’anni non aveva venduto quasi niente, e perciò era costretto a fare tutti i mestieri, a vivere in stanze d’affitto, faticando ad arrivare alla fine del mese, una bella rivincita, se potesse vederla. Bisogna dire che un po’ se lo aspettava: lo aveva pronosticato a John Martin, editore della Black Sparrow Press, la piccola casa indipendente a cui mandava il suo materiale in cambio di un regolare assegno, all’inizio 100 dollari al mese, poi saliti fino a settemila. E bisogna anche dire che da quella esistenza vagabonda e miserabile trasse l’ispirazione per la maggior parte delle sue opere.
Il passare del tempo ha trasformato Bukowski da “scrittore maledetto” e “vecchio sporcaccione” a classico moderno, da mettere sullo scaffale dei romanzieri che mescolano l’invenzione narrativa con la propria biografia, da Hemingway a Kerouac, da Henry Miller a Knut Hamsun, da Blaise Cendrars a Louis-Ferdinand Céline.
Un minimalista ante-litteram, il cui stile si riassume in un motto, «il genio potrebbe essere l’abilità di dire cose profonde in modo semplice»: chissà come rimarrebbe ad apprendere che questa e altre citazioni dei suoi libri oggi inondano i social media, i profili digitali dei suoi fan club e sono perfino ristampate su poster e tazze da caffè. Un poeta brutale e crudo, ma anche ironico e commovente. Il difensore dei falliti, degli ubriaconi, dei perdenti. Il nemico degli intellettuali da salotto. «Don’t try», non sforzarti, lascia che l’ispirazione arrivi tra un sorso di birra, il fumo di sigaretta e la musica alla radio, fino al termine della notte: ecco la sua lezione, da meditare per tutti quegli autori che, in mancanza di vita vissuta, si scervellano sul proprio ombelico. È stato accusato di misoginia per come descrive il sesso, per frasi come «ho un debole per le donnacce con le calze molli e il trucco sbavato» oppure «ho imparato di più da una battona che da un filosofo», ma è raro trovare uno scrittore che parla con altrettanta franchezza dei propri fallimenti, di quando non riesce ad arrivare all’orgasmo, della solitudine, dell’amore privo di sdolcinata retorica.
In questo aveva trovato un fratello in Fante, come Bukowski racconta nella prefazione a Chiedi alla polvere: «Ero giovane, saltavo i pasti, mi ubriacavo e provavo a diventare uno scrittore. Le mie letture andavo a farle alla biblioteca pubblica di Los Angeles, ma niente di quello che leggevo aveva alcun rapporto con me, con le strade o con la gente che le percorreva. Mi sembrava che tutti giocassero con le parole e che i cosiddetti grandi scrittori non dicessero un accidenti di niente. Bisognava tornare agli scrittori russi precedenti alla rivoluzione per ritrovare il rischio e la passione. C’erano delle eccezioni, ma erano così poche che le si esauriva in un attimo, per poi ritrovarsi a fissare file e file di libri di un’incredibile monotonia. A paragone degli scrittori del passato, i moderni non valevano gran che. Tirai giù dagli scaffali un libro dopo l’altro. Perché nessuno diceva niente? Perché nessuno gridava? Continuavo ad aggirarmi per la sala, leggendo qualche riga, a volte qualche pagina, per poi rimettere i libri al loro posto. Poi, un giorno, ne presi uno e capii subito di essere arrivato in porto. Rimasi fermo per un attimo a leggere, mi portai il libro al tavolo con l’aria di uno che ha trovato l’oro nell’immondezzaio. Le parole scorrevano con facilità, in un flusso ininterrotto. Ognuna aveva la sua energia ed era seguita da un’altra simile. La sostanza di ogni frase dava forma alla pagina e l’insieme risultava come scavato dentro di essa. Ecco, finalmente, uno scrittore che non aveva paura delle emozioni. Ironia e dolore erano intrecciati tra loro con straordinaria semplicità. Quando cominciai a leggere quel libro mi parve che mi fosse capitato un miracolo, grande e inatteso». Ebbene, è lo stesso miracolo capitato a tutti i lettori di Charles Bukowski. Inclusa la giovane cassiera della libreria di Londra, a cui ho pagato un suo romanzo l’altro giorno.