La Stampa, 28 febbraio 2024
Vi racconto le mie passeggiate con Calvino e perché alla letteratura serve l’archeologia
Non nacque mai, la rivista progettata nel 1968 da Italo Calvino con Gianni Celati, Carlo Ginzburg e Guido Neri. Doveva riprendere il filo del Menabò di Vittorini e chiamarsi Alì Babà; ne restano il testo programmatico scritto da Calvino nel 1972, ma uscito poi soltanto nel 1980 in una raccolta di scritti (Una pietra sopra, Einaudi), e altri materiali preparatori pubblicati da Mario Barenghi e Marco Belpoliti in Riga 14, 1998. Il mancato editoriale di Calvino parte da una diagnosi: «Il magazzino dei materiali accumulati dall’umanità non si riesce più a tenerlo in ordine». Segue una lunga lista, che include macchinari, mercati, istituzioni, poemi, grammatiche, miti e riti, rapporti parentali e tribali e aziendali, topoi e figure del discorso: insomma, la Storia. Un insieme ormai sfasciato da fattori concomitanti, il genere umano dei grandi numeri in crescita esponenziale sul pianeta, l’esplosione della metropoli, la fine dell’eurocentrismo economico-ideologico, il rifiuto degli esclusi, degli inarticolati, degli omessi d’accettare una storia fondata sull’espulsione, l’obliterazione, la cancellazione dai ruoli. Morbo insanabile, perché il nemico dell’Uomo-soggetto della storia si chiama ancora Uomo, ma quanto mutato da quello che credeva d’essere. Non resta che mettersi dalla parte del fuori, degli oggetti, dei meccanismi, dei linguaggi, indicare e descrivere più che spiegare, forse con il metodo strutturale o semiotico, ma ricorrendovi tanto più spesso quanto più si serba algebrico e impassibile. Insomma, adottare lo sguardo dell’archeologo e del paleoetnografo, così sul passato come su questo spaccato stratigrafico che è il nostro presente. L’archeologo infatti rinviene utensili di cui ignora la destinazione, e il suo compito è descrivere pezzo per pezzo anche e soprattutto quel che non riesce a finalizzare in una storia o in un uso: la filologia di quel che non si capisce. E cosi doveva fare Alì Babà, dalla soglia di una caverna piena di tesori innominati.
Intorno al 1980 usava ancora, in Einaudi, discutere accanitamente di ogni progetto, di ogni libro non solo nella cucina interna della casa editrice ma anche con un manipolo di autori. Giulio Einaudi non poteva accontentarsi delle riunioni settimanali del mercoledì, e ci convocava ogni anno per tre giorni a Rhemes-Notre-Dame in Val d’Aosta, dove lo splendido scenario naturale del Gran Paradiso, un’ospitalità essenziale e una gran compagnia favorivano conversazioni interminabili non solo intorno al tavolo delle riunioni, ma anche nell’intervallo di poche ore nel primo pomeriggio, dedicato a operose passeggiate.
Fu in quelle passeggiate che Calvino prese a interrogarmi, con quella sua aria ritrosa e intensa, sul mestiere dell’archeologo: come si sceglie dove scavare? Come si classificano gli oggetti? Come si distinguono gli strati? Che rapporto c’è fra l’archeologo che scava e quello che, invece, interpreta oggetti molto antichi ma già noti da tempo? E cosi via. Di qui nacquero le due visite sul campo che facemmo insieme, e poi due suoi articoli, inclusi pochi anni dopo, in sequenza, in un’altra raccolta di scritti (Collezione di sabbia, Garzanti 1984). Erano tempi, quelli, in cui i quotidiani ammettevano dimensioni di misura saggistica, e questi due di Calvino, usciti su la Repubblica, non contano meno di quindici o sedicimila battute l’uno, lunghezza oggi pressoché impensabile.
Tenendo le sue domande in mente, proposi a Calvino due esperienze diversissime, che dessero un’idea del gran ventaglio della ricerca archeologica: un cantiere di scavo e una grande opera d’arte di quasi duemila anni fa. Cominciammo nell’estate 1980 con la villa di Settefinestre in Toscana, dove Andrea Carandini e una folta schiera di allievi conducevano da qualche anno, con metodo impeccabile, uno scavo stratigrafico del più grande interesse. Venendo da Pisa, incontrai Calvino non lontano dalla sua casa di Roccamare (in Maremma), e proseguimmo con la sua macchina fino a incontrare Carandini, lieto di guidarci per ore sul cantiere in piena attività.
Il saggio di Calvino, Il maiale e l’archeologo, uscì il 4 settembre, ed è quasi il rovescio di quel percorso di visita. Calvino aveva capito benissimo che Settefinestre concentrava una dimora padronale lussuosa, una caserma di schiavi e un’azienda agricola, ma comincia il suo racconto con la grande novità di quest’anno, il porcile. Un incipit quasi da cronaca, ma quel che a lui interessava era come gli scavatori avessero capito che quel cortile con ventisette stanzette sui quattro lati era proprio un porcile, e si allertò vivacemente quando Carandini comincio a spiegare che quei muretti erano stati interpretati alla luce di fonti antiche (Columella e Varrone), che sembravano discordare fra loro. E invece no: osservando altri dettagli, le discordanze spariscono e il quadro si completa: quel porcile era una grande sala parto per la produzione dei maialini.
Sotto terra non si perde niente, commenta Calvino; ma è all’atto dello scavo che se la tecnica non è adeguata si rischia di distruggere ciò che i secoli avevano tenuto in serbo. L’arma segreta della nuova archeologia è una piccola cazzuola (in inglese “trowel") che consente uno scavo lento e accurato. I frantumi dei crolli succedutisi nei secoli vengono messi alla luce strato per strato, disegnati e fotografati cosi come si trovano, descritti in minuziose schede. Lo sguardo dell’archeologo richiede dunque arnesi e procedure garantite, ma anche fonti letterarie da mettere in tensione coi reperti. È fatto per indicare e descrivere, ma vuol anche spiegare. Quello sprofondarsi nel dettaglio richiamava certo a Calvino i poemi in prosa di Francis Ponge, minuziose descrizioni di oggetti dell’uso quotidiano, come i tre che lo stesso Calvino tradusse e commentò nel 1969 (Il sapone, il carbone, la patata), all’insegna del dictum di Paul Valery secondo cui solo il massimo rigore può assicurare la più grande libertà. —