La Stampa, 28 febbraio 2024
Intervista a Joyce Carol Oates
Cos’è l’ispirazione per Joyce Carol Oates? Come nascono i romanzi e i racconti di una delle più grandi scrittrici americane? Sarà lei stessa a raccontarlo al prossimo Convegno mondiale di filosofia a Roma. In uno degli incontri preparatori, a Princeton, ha accettato di parlare con La Stampa dell’America, dei conflitti aspri di questi anni, della comunicazione che cambia e della sua scrittura.
Oates non è solo una scrittrice straordinariamente prolifica, come spesso si ricorda, ma anche, soprattutto, un’autrice eclettica. Accanto agli oltre sessanta romanzi ha scritto raccolte di racconti, poesie, saggi, drammi teatrali, libri per l’infanzia: quel che conta, ha detto, è l’innamoramento per la lingua. La sua scrittura ha attraversato il Novecento americano raccontando il mito e il suo rovescio, lo splendore e la ferocia, la libertà promessa e mancata, con precisione e talento impareggiabili. Ha inventato un’incalcolabile galleria di personaggi: donne e uomini – soprattutto donne – famiglie, bande di adolescenti, bambini in fuga. A chi le ha chiesto perché la violenza fosse un tratto così ricorrente nei suoi libri ha risposto che è necessario capovolgere la prospettiva: l’eccesso di violenza è nel mondo; la scrittura, quando è seria, non si sottrae al racconto dei fatti.
Nell’Università pubblica del New Jersey dove lavora Ernie Lepore, grande filosofo del linguaggio statunitense e Presidente del comitato scientifico del convegno, Joyce Carole Oates tiene una parte dei suoi corsi di scrittura creativa, l’altra parte si svolge a Princeton, dove vive dal 1978. L’insegnamento è stata una costante nella sua vita, nelle sue classi sono passati autori come Johnatan Safran Foer, che disse: «Se non fosse stato per lei, non sarei mai diventato uno scrittore». Quando da Princeton è arrivato il suo invito per la serata di letture Writers out, i lavori del convegno si sono fermati e siamo corsi ad ascoltare lei e i giovani autori con cui lavora, i versi belli e durissimi di Ilya Kaminsky, poeta ucraino ormai tradotto in molte lingue – “And when they bombed other people’s houses, we protested but not enough, we opposed, but not enough” (e quando hanno bombardato le case degli altri, abbiamo protestato ma non abbastanza, ci siamo opposti ma non abbastanza).
Il racconto che dà il titolo alla raccolta del suo ultimo libro, Zero-Sum, s’ispira alla teoria dei giochi secondo la quale la vittoria di una delle due parti si fonda sul fallimento di chi è sconfitto: chi perde, perde tutto. Tutto sembra governato da calcoli, fantasie di controllo destinate da infrangersi drammaticamente nel confronto con la realtà. Si può ancora immaginare una società governata da un principio diverso?
«In diverse storie si dà rilievo al fatto che il paradigma “a somma zero” non si applichi alle relazioni personali, specialmente a quelle basate sull’amore, la compassione, il rispetto reciproco. Ma la società americana, così aggressivamente competitiva, impedisce la vulnerabilità e l’apertura, com’è particolarmente evidente nel crollo della fiducia dei cittadini gli uni verso gli altri. Coloro che si sentono più emotivamente solidali con gli altri possono essere a rischio, come la madre di The Cold e l’insegnante di liceo in pensione isolata in casa durante la quarantena, che almeno entra in contatto con un ex studente ora soldato. Tendo ad avere una visione tragica della storia e della vita pubblica, molto più speranzosa e tenera per quanto riguarda le relazioni intime».
Ha scritto che per ogni passo avanti le donne vivono “uno tsunami di ritorno": pensa che oggi ci sia una misoginia sia più forte, più diffusa?
«È sbalorditivo come la cultura americana continui a essere infestata, come da un tumore maligno, dalla misoginia, con le donne stesse che si schierano con i loro oppressori patriarcali in questioni come i diritti riproduttivi nei nostri Stati “rossi”. La sfiducia nei confronti delle donne è radicata nel cristianesimo conservatore, in cui il “posto della donna” è la casa, la cura della famiglia, la nascita dei figli. Tuttavia, c’è molta speranza nel fatto che le donne ora sono la maggioranza degli studenti universitari e ogni anno il loro peso cresce sempre più nelle scuole di medicina e di legge, almeno nelle zone più liberali del Paese. Ma molti dei miei personaggi femminili hanno raggiunto un minimo di indipendenza intellettuale, come nel racconto che dà il titolo al libro, “Zero-Sum”, a rischio di perdere i tratti più morbidi della propria umanità. No, non credo che la misoginia o il razzismo siano più diffusi oggi negli Stati Uniti, ma sono più evidenti nei social media. Nel complesso, c’è stato uno spostamento, per quanto lento, verso il riconoscimento dei diritti delle donne e delle minoranze, in particolare nel mondo accademico. In realtà non scrivo di questioni sociali generali, mi preoccupo soprattutto di esplorare i personaggi, le personalità e le relazioni tra le persone, in un contesto narrativo in cui la lingua è fondamentale. In altre parole, come scrittrice mi interessa soprattutto creare un testo nuovo o originale con cui presentare una storia unica».
I bambini, in particolare gli adolescenti, sono centrali nei suoi libri. Gli adulti sembrano spesso incapaci di riconoscerne e rispettarne i bisogni, nel peggiore dei casi ne abusano o li cancellano.
«In Babysitter speravo soprattutto di raccontare una storia che coinvolgesse personaggi (per me) affascinanti e che risolvessero i loro destini insieme, il tutto nel contesto di un vero “babysitter"- un serial killer – che nel 1976-77, l’epoca del romanzo, predava i bambini nella zona di Detroit. La mia intenzione era quella di creare un “film” di parole – dove tutto è sempre al tempo presente – e dove Hannah è spinta in avanti come un attore in un copione non scelto da lei. Però trova la forza e il coraggio morale di ripudiare il mondo del “babysitter” – sceglie spontaneamente i suoi figli, sceglie di proteggerli – il che costituisce il culmine del romanzo».
Cosa pensa del ruolo che hanno avuto i social media nel cambiare il nostro modo di comunicare?
«Non ne sono sicura: un buon numero di americani non segue i social media come Twitter, ma continua a essere informato o disinformato dalle “notizie” televisive – in alcuni casi, come Fox News, propaganda dei conservatori. Pochissimi dei miei amici sono su Twitter, per esempio. (Ernie Lepore non lo è!) Nel mio ambito la maggior parte delle persone legge religiosamente il New York Times ogni giorno, si abbona al New Yorker e alla New York Review of Books e guarda MSNBC. Sono liberali, di sinistra, senza essere aggressivamente “progressisti” – credono nella libertà di parola».
Torniamo a Zero-Sum. Il racconto che chiude la raccolta, M a r t h e, dedicato all’intelligenza artificiale, più esattamente alla lotta per sopravvivere dell’ultimo rappresentante della specie umana, si chiude con un richiamo: «Consider carefully before you vote! The future of civilization on Earth dipends upon you». Crede che questa consapevolezza sia presente negli elettori americani che si avvicinano al voto di novembre?
«Sì, intendevo suggerire che c’è ancora speranza – anche se forse sta diminuendo – se gli americani e altri prendono decisioni politiche giuste, capaci di aiutare a prevenire le terribili conseguenze del cambiamento climatico. Il mondo del racconto non è un futuro molto lontano o improbabile. Ma anche M A R T H E è una parabola, una favola. ("Marthe” era il nome dell’ultimo piccione passeggero del Nord America, una specie che si è estinta a causa della caccia eccessiva da parte dell’uomo)».