Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  febbraio 28 Mercoledì calendario

Intervista ad Andrea Casalegno


In Italia c’è una generazione di giornalisti che hanno scelto la loro professione per seguire l’esempio di Carlo Casalegno. Una delle firme più libere e coraggiose del suo tempo, vicedirettore de La Stampa, venne condannato a morte dalle Brigate Rosse per i suoi attacchi al terrorismo, sferrati da queste pagine nella rubrica «Il nostro Stato». Il 16 novembre 1977 la colonna torinese delle Br lo attese nell’androne di casa in corso Re Umberto e Raffaele Fiore gli sparò. Morì il 29 novembre. Quel giorno suo figlio Andrea compiva 33 anni.
Oggi Andrea Casalegno di anni ne ha 80. Vive nella pre-collina torinese, sopra la Gran Madre, e nello studio tappezzato di libri rievoca la vita con suo padre, con una sincerità e una lucidità disarmanti. «Quel 16 novembre ero all’Einaudi, impiegato come redattore. Era passata da poco l’ora del pranzo quando mi telefonò Elisabetta Andreis, la suocera di papà. “È successa una cosa terribile”, mi disse. Presi la bicicletta e andai alle Molinette. Lì c’era già il direttore della Stampa, Arrigo Levi. In camera di rianimazione non si poteva entrare, se non un paio di minuti al giorno restando lontani. Trascorsi i giorni e le notti su una sdraio, in una stanzetta lì fuori».
In quelle due settimane riuscì a vedere suo padre?
«Solo un paio di minuti al giorno, da lontano. A volte farfugliava, ma non abbiamo mai saputo se abbia ripreso conoscenza».
Era consapevole di ciò che rischiava?
«La frase “Alzeremo il tiro contro i giornalisti”, in un documento rinvenuto a settembre in un covo delle Brigate Rosse, lasciava poco spazio all’immaginazione. Una volta, a pranzo da lui, gli dissi di fare attenzione, che se il giornale gli avesse offerto la scorta di accettarla. Mi rispose: “Tanto se vogliono farlo lo fanno lo stesso"».
Com’era il rapporto tra voi due?
«Quand’ero bambino, inesistente. C’era un affetto reciproco ben percepibile, ma nessuna comunicazione. Eravamo due perfetti sconosciuti».
Perché?
«Le esperienze personali e dolorose della prima parte della sua vita l’avevano segnato profondamente. Si chiuse dopo il suicidio di mia mamma, la sua prima moglie, Maria Salvatorelli, nel 1948. Lei soffriva di una grave forma di depressione iniziata con la mia nascita».
Com’è stato il rapporto con le altre due mogli di suo padre?
«Dopo la morte di mia madre sono stato portato a Roma da mia nonna e lì ho fatto un anno di asilo. Tornato a Torino mi sono trovato in casa Anita Penati, che mi dicevano di chiamare zia. Da principio avevo un buon rapporto con lei, mi portava spesso in bicicletta lungo i viali di Torino. Poi tra lei e mio padre le cose sono peggiorate. Quando avevo 12 anni si sono separati».
E con Dedi Andreis?
«Mio padre l’aveva conosciuta su una nave durante un viaggio a Rodi. È stata sua moglie fino al giorno della morte. Il mio rapporto con lei era eccellente, ma avevo 18 anni e non è mai stata per me una figura materna».
Suo papà come si divideva tra casa e giornale?
«Lavorava tantissimo. Tornava dopo la riunione di redazione, alle due e mezza, e poi alle dieci di sera. A mangiare ero sempre da solo, con la domestica. E d’estate, alla fine della scuola, stavo a Roma da mia nonna, quindi nemmeno le vacanze facevamo insieme».
Non vi raggiungeva?
«Di rado. Ricordo una sua breve visita a Donoratico, l’estate della mia seconda media. Quell’anno conoscemmo un’affabile famiglia di romani con cui mio padre fraternizzò subito. Si chiamavano Agata e Luigi Moretti. Erano in vacanza con i figli Franco e Nanni, futuro regista».
Sia lei che suo padre eravate progressisti, ma su posizioni diverse: lui più moderato, lei iscritto a Lotta Continua. Nascevano mai discussioni politiche?
«Mai. Peraltro lui aveva un rispetto assoluto per le idee altrui. Una volta gli dissi: “Ti sembrerà assurdo, ma ritengo ancora vera la frase di Marx, secondo cui i proletari hanno da perdere solo le loro catene». Si limitò a rispondermi: “Penso che abbiano da perdere molto di più”. La storia gli ha dato ragione».
Lui come reagì quando lei venne arrestato per diffusione di volantini sull’omicidio Calabresi?
«Nominò in mia difesa due principi del foro, Marcello Gallo e Giovanni Conso. Venni condannato in primo grado a 16 mesi, poi assolto in appello con formula piena. Intanto mi ero fatto 3 mesi di carcere preventivo. Mio figlio Nicola ha mosso i suoi primi passi sul bancone del penitenziario di Saluzzo».
Com’era il Carlo Casalegno nonno?
«Molto diverso dal papà, e questo ha migliorato anche la comunicazione tra noi. Una volta diedi uno scappellotto a Nicola e mio padre ne diede all’istante uno a me. Non dicemmo nulla. Il giorno dopo mi scrisse una lettera di scuse su carta intestata della Stampa. Gli risposi che ero felice che mio figlio avesse in lui un difensore».
Come ha spiegato al piccolo Nicola l’omicidio di nonno Carlo?
«Che ai terroristi non piacevano gli articoli che scriveva».
E lui cos’ha risposto?
«"Allora non potevano strapparli?"». —