il Fatto Quotidiano, 28 febbraio 2024
Maillart e Lamas: le vite (in mostra) di chi lotta
“Rovinare ciò che uno ama! Stoltezza del genere umano, che pure sa essere geniale. Non parliamo dei grandi problemi posti dall’erosione del pianeta accelerata dal bisogno di produrre sempre di più, dall’energia atomica con le sue conseguenze spaventose, dalla nostra vita in cui la pubblicità trasforma foreste in tonnellate di carta. Parliamo delle piccole cose quotidiane, in cui ciascuno di noi dovrebbe smetterla di essere stupido! Bisogna reimparare a vedere, a meravigliarsi…”.
Non è Greta Thunberg, ma un articolo apparso nel 1966 a firma di Ella Maillart (1903-1997), grande viaggiatrice e scrittrice ginevrina cui il Musée Rath dedica fino al 21 aprile una retrospettiva densa di testi e di fotografie. Rampolla dell’alta borghesia, unica velista donna alle Olimpiadi parigine di cent’anni fa, la Maillart voltò precocemente le spalle all’Europa egoista e decadente tra le due guerre, e si gettò nei viaggi come strumenti per conoscere l’altro, sola via (amava ripetere) per capire se stessa: la gioventù dissidente o integrata tra Berlino e Mosca (Tra i giovani russi, 1932), le tribù nomadi nei paesaggi del Turkestan (Dai Monti Celesti alle Sabbie Rosse, 1934), gli spazi interminati tra la Manciuria e l’India, solcati in un itinerario attraverso un’Asia sguarnita di frontiere (Oasi proibite, 1937).
E poi la Via crudele (il libro è in italiano per la EDT di Torino) percorsa in automobile da Ginevra fino all’Afghanistan in compagnia della talentuosa e autodistruttiva scrittrice Annemarie Schwarzenbach, nel ’39 mentre tutto precipitava. Rimasta in Oriente a differenza della compagna (che tornò a Silvaplana per morirvi di colpo nel ’42), la Maillart passerà poi in India, dove apprenderà dai saggi l’idea dell’“unità del mondo”, cui terrà fede per tutto il Dopoguerra: installata in un piccolo chalet tibetano a duemila metri sulle Alpi svizzere, non esitò a intervenire concretamente a favore dell’ambiente, della pace mondiale, della solidarietà, promuovendo missioni e viaggi di cultura per avvicinare il “diverso da noi”.
Empatica (lo mostra il vano affetto amicale per la disperata Schwarzenbach), tenace nonostante le disillusioni (“si portano delle idee nuove nei villaggi all’altro capo del mondo, si aprono strade, si curano malattie. Ma si destabilizza un equilibrio. Si apre la breccia per il mercantilismo, per gli inquinamenti di ogni tipo”), la Maillart conosceva di prima mano la Natura e i luoghi-chiave del nostro presente, dalla Via della Seta (o dell’Oppio?) ai Buddha di Bamyan (già allora minacciati dai fanatici), dalle moschee di Mashhad ai bastimenti del Mar Nero. Dalle sue foto, come dai suoi reportage, emerge lo sguardo largo che consente di fondare un’idea di umanità su basi diverse dai pregiudizi, su un’attitudine alla cura.
Non dissimile, anche se più circoscritto, è lo sguardo della “donna più notevole del Novecento portoghese”, la scrittrice, giornalista e fotografa Maria Lamas (1893-1983), in mostra alla Fondazione Calouste Gulbenkian di Lisbona fino al 28 maggio. Donne del mio Paese s’intitola l’album che la Lamas pubblicò in fascicoli tra il 1948 e il 1950, all’indomani della soppressione del Consiglio Nazionale delle Donne Portoghesi che presiedeva: una galleria ragionata e potente di ritratti di lavoratrici dall’Alentejo al Traz-os-Montes – contadine, pastorelle, minatrici, filatrici, mondine, lattaie, scaricatrici, svuotatrici di reti, pulitrici di baccalà… Donne (spesso bambine) precocemente segnate dalla fatica, col capo gravato da orci in perfetto equilibrio per lunghi viaggi al mercato o alla fontana; donne quasi sempre scalze (non però la bella ricamatrice di Porto), còlte dall’obiettivo tra l’imbarazzo e la fierezza in una chiave meno neorealista o di denuncia che sociologica alla August Sander. La solidarietà testimoniata da queste foto – e dall’ampio studio che esse illustrano – procede dall’idea di un comune destino, e dall’urgenza di mostrare ciò che il potere violento (maschile, dittatoriale) vuole occultare.
Più volte arrestata dal regime di Salazar, costretta all’esilio a Madeira e poi a Parigi, la Lamas visse una vita “contro” fino alla rivoluzione dei garofani, lottando per i diritti e intervenendo alle conferenze del World Peace Council – piace pensare, anche se non ve n’è documento, che in una delle mobilitazioni contro il nucleare abbia incrociato i passi di Ella Maillart, impegnata nella stessa causa, proprio nei decenni in cui tanti portoghesi emigravano nella Confederazione.
Ora, io so che l’Europa, dall’Atlantico al Lemano alla Vistola, pullula di Maillart e di Lamas, di donne d’ogni età capaci di capire il presente e di immaginare un futuro diverso incarnandolo in modo credibile. È troppo sperare che siano loro, anziché cotonate guerrafondaie tedesche, algide contabili parigine o scaltre sovraniste de noantri, a prendere il timone di un continente immemore di sé?