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 2024  febbraio 28 Mercoledì calendario

Sette lezioni su Aristotele

Possiedo un’edizione in due volumi dell’Opera omnia di Aristotele: sono due tomi in folio (40 cm. di altezza per 28 di larghezza) per un totale di circa 2.500 pagine. Testo greco, traduzione latina, indici meticolosi. Sono stati stampati a Parigi Typis Regiis nel 1629 e rilegati alla stessa epoca in pelle di vitello inglese divenuta dura come il marmo. È la celebre edizione di Isaac Casaubon, filologo francese di prima grandezza, e apparteneva alla biblioteca della meravigliosa Cattedrale di Ely, nel Cambridgeshire. Un solo volume peserà una decina di chili. Gli studiosi, chierici o laici, lo leggevano in piedi, da un leggio o da un bancone. Per non far torto ai progressi della filologia classica, ho acquistato per pochi soldi anche i sei volumi (greco soltanto) dell’Aristotele di August Immanuel Bekker, degli anni 30 dell’Ottocento. Per capirsi, l’edizione Bekker è quella cui si riferiscono i numeretti delle edizioni moderne di Aristotele, cosicché quando il testo a lato di un brano riporta 1447 a, vuol dire p. 1447 sezione a dell’edizione Bekker, l’inizio della Poetica: «Della poetica medesima e delle sue forme». È il sistema universalmente usato per citare non solo Aristotele, ma anche Platone, gli Oratori Attici, la Suida e molto altro ancora, perché Bekker passò la sua vita a curare edizioni impeccabili di classici greci. Ora, li possono consultare, seduti, anche gli studenti.
Sono conquiste fondamentali della filologia e della critica post-medievale. Alla fine dell’antichità sopravvivevano di Aristotele soltanto le Categorie e il De interpretatione tradotte in latino da Mario Vittorino tra III e IV secolo, poi, insieme agli Analitici Priori, da Boezio: il quale intendeva tradurre tutto Aristotele e tutto Platone, ma il carnefice di Teodorico, esattamente 1500 anni fa, impedì che l’impresa si realizzasse. Il Medioevo occidentale non aveva nient’altro di Aristotele, come non aveva null’altro che (buona parte del) Timeo di Platone nella traduzione di Calcidio.
Ad Aristotele andò meglio che a Platone: mentre questi dovette attendere l’impresa straordinaria di Marsilio Ficino nel Quattrocento per vedersi interamente tradotto (possiedo anche quella edizione in folio, Francoforte 1610), quegli – Aristotele – giunse in Europa tra XII e XIII secolo. Arrivava attraverso le versioni siriache o arabe, spesso accompagnato dal commento di Averroè, e per farsi un’idea dei malintesi che potevano risultare dal procedimento basta leggere l’ilare racconto di Borges sulla Ricerca di Averroè nell’Aleph. A metà Duecento, però, il domenicano Guglielmo di Moerbeke cominciò a tradurre Aristotele direttamente dal greco, e si ebbero così versioni affidabili della Fisica, della Metafisica, della Politica, del De Caelo e di altro ancora, fino a dar luogo all’Aristoteles latinus.
L’arrivo di Aristotele nell’Europa delle Università è una rivoluzione epocale, che cambia i connotati della cultura filosofica e scientifica. Aristotele è assai meno poetico del suo maestro Platone, ma anche molto più sistematico e “realistico”: l’universale per lui non è un’idea, l’«alberità» dell’albero, ma l’albero individuale, questo albero. E la sua Etica nicomachea è una ricerca serrata del fine ultimo dell’uomo, la felicità. La Poetica, poi, da sola o insieme con la Retorica, rivaluta la mimesi tragica e quella epica in maniera definitiva. L’Europa, stordita, passa i secoli successivi ad assorbire Aristotele, a renderlo compatibile con il Cristianesimo, a commentarlo. Soltanto i commenti alla Metafisica di Alberto Magno e del suo discepolo Tommaso d’Aquino, i due maggiori, sono volumi ciascuno di un migliaio di pagine. E mai viene meno l’interesse nell’opera del «maestro di color che sanno» – come lo chiamò Dante, che senza Aristotele non avrebbe potuto scrivere né il Convivio né la Commedia – sino all’edizione critica della Metafisica di David Ross e al suo libro su Aristotele (1923 e 1949).
Naturalmente, accade ad Aristotele quello che succede sempre ai grandi quando cambia il paradigma che hanno incarnato: basterà ricordarsi del ridicolo che sparge su di lui a piene mani Galileo Galilei. Ma i grandi hanno sempre qualcosa da dire, e ora è venuto il momento di pubblicare con commento singoli libri della Fisica (III e IV, Carocci) o della Metafisica: a Oxford Steel e Primavesi hanno coordinato varie mani nel Symposium Aristotelicum per commentare Alpha, da Carocci Cardullo ha pubblicato A, alfa e B; la stessa Fondazione Valla ha in programma un Libro Zeta curato da Silvia Fazzo.
Poi, si giunge alle pillole, alle Vele, al numero x di “lezioni”. Memorabili le quindici composte da Vegetti e Ademollo per Einaudi nell’Incontro con Aristotele di qualche anno fa. Giungono adesso le Sette e brevi di John Sellars. Le quali, per coloro che non vogliano rovinarsi la schiena sollevando Casaubon, sono perfette: di misura, di impostazione, di penetrazione e leggibilità. Sellars ha saputo scegliere i temi fondamentali: lo studio della natura, l’uomo (l’animale razionale e sociale), la letteratura, la vita buona e la vita di ricerca. Perché, ci si domanda, occuparsi ancora di Aristotele, 2300 anni dopo la sua scomparsa? Perché è colui, si direbbe oggi, che ha dettato la nostra “agenda”. Colui il quale è stato capace di dire che «tutti gli uomini per natura desiderano sapere»; che «nella prassi dobbiamo partire dal bene di ciascuno per far sì che il bene universale diventi bene di ciascuno»; che la poesia è «più filosofica e seria» della storia perché parla dell’universale mentre la storia del particolare. Infine, perché in tarda età ha scritto una lettera in cui afferma che più è vecchio e solo più ama il mito. Sellars, che aveva già sperimentato la formula con le Lezioni sullo stoicismo e sull’epicureismo, è brillantemente riuscito a fargli dire tutto questo, e molto di più, in 120 pagine. Non è poco.
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John Sellars
Sette brevi lezioni su Aristotele
Traduzione di Angelica Taglia
Einaudi, pagg. XII + 128, € 12