Domenicale, 28 febbraio 2024
La biblioteca Barberini in Vaticano
l’eco di babele nel silenzio dellA BIBLIOTEca Del VUOToArte contemporanea in Vaticano. La Sala che ospita la libreria della famiglia Barberini è spoglia di volumi. E ora, con l’installazione di Alain Fleischer, ospita la forza muta degli idiomi che risuonano e si sovrappongono senza sostaGiacomo Cardinali
Nel 1902 la Santa Sede acquistava, per la somma di 525mila lire, la biblioteca e l’archivio della famiglia Barberini, che venivano trasferiti in Vaticano insieme agli scaffali e agli arredi lignei attribuiti a Giovanni Battista Soria (1581-1651). Mentre i manoscritti e gli stampati trovavano posto nei rispettivi depositi della Biblioteca Vaticana, e le carte d’archivio andavano a costituire un apposito fondo, la mobilia lignea ebbe una storia più tormentata. Per un secolo venne smembrata e impiegata sia come vera e propria biblioteca sia come “libreria d’apparato”, dove ci fosse bisogno di una quinta solenne, per essere ricomposta solo nel 2007 in una stanza appositamente costruita per contenerla. Da allora ha l’aspetto di uno scrigno tanto suggestivo quanto problematico. Il più bel rompicapo del mondo.
Strutturata in due piani sovrapposti con una stretta balaustra, ha due porte contrapposte all’ingresso, che immettono in altrettanti piccoli guardaroba, altre due in fondo, cieche, e una a metà del lato sinistro, dalla quale si può salire sul ballatoio, sul quale si aprono altre due porte finte: una splendida biblioteca-teatro, in legno massiccio, tornito e scolpito a mano, scandita da paraste che si aprono, sportelli e cassettini, che moltiplicano lo spazio all’infinito, sui quali sono scolpiti motivi vegetali, fiori, soli, ma soprattutto api, che ronzano ovunque. Ce n’è una al centro di ogni maniglia dorata, e la stanza ha l’aspetto di una delle fantasmagorie sceniche di Pier Luigi Pizzi. Tanto più che essa è vuota, una “biblioteca senza libri”, come ci fa notare, più o meno sconcertato, ogni nostro ospite.
Le ragioni sono, in verità, molteplici e afferiscono a vari ordini: c’è quello della sicurezza, per cui la struttura non è giudicata a norma, ma anche quello della conservazione, che sconsiglia vivamente di lasciare libri antichi su scaffali di legno in un microclima come quello di Roma, molto caldo e umido. C’è poi il problema della sicurezza dei volumi, che impedisce di conservarli su scansie facilmente raggiungibili dal pubblico – come è in una sala che non conosce gli sportelli settecenteschi a rete metallica – e quello dell’impiego della stanza, che spesso funge da luogo di riunione, di conferenze o di presentazioni. Se vi si tengono eventi, i libri non possono essere lasciati lì; se vi si conservano libri, non vi si possono tenere eventi: non si sfugge. Nessuna collezione vi entrerebbe poi esattamente, nemmeno quelle barberiniane, poiché nel palazzo di famiglia erano ben tre le stanze che ospitavano la raccolta libraria, e non una sola. Un’impasse, dunque, che ha generato il paradosso della “biblioteca senza libri”, del vuoto, tanto più imbarazzante da reggere in tempi in cui la ricerca di nuovi spazi per assecondare la fisiologica crescita delle collezioni è tanto impellente quanto difficile. Non la si mostrava volentieri a chi veniva a trovarci, fino a che – e accadde con Pietro Ruffo nel 2021 – gli artisti contemporanei non hanno fatto il loro ingresso in Vaticana. Da quel preciso momento il rompicapo è stato magicamente risolto: il vuoto della “Barberini” è divenuto il luogo più significativo della biblioteca. Quello più stimolante e vivo. Generativo.
Pietro Ruffo ha avuto l’intuizione di riempirlo di migliaia e migliaia di rotoli di carta millimetrata, allineati uno a fianco all’altro come i dorsi di una collezione di libri, sui quali ha disegnato una foresta, ricreando la connessione tra biblioteca e giardino di Palazzo Barberini, ma soprattutto rendendo visibile il rapporto tra studiosi e libri. Muoversi in una biblioteca significa, infatti, essere continuamente esposti a richiami di ogni genere che provengono dai libri, che quasi aggettano, proprio come la foresta lussureggiante e carnosa di Ruffo, dagli scaffali e reclamano, con mille voci che si sovrappongono, l’attenzione dello studioso. Come sirene cantano, e tentano. Lavorando con la Fondazione Maria Lai, la Sala Barberini ha ospitato, invece, l’Invito a tavola: lasciata nella penombra che rendeva appena percettibile la struttura architettonica della biblioteca-teatro, la luce e ogni attenzione erano riservate alla tavolata drappeggiata di bianco, sulla quale l’artista aveva imbandito una mensa fatta di libri e di pani in terracotta refrattaria. Attendeva i suoi ospiti, ma nel frattempo scatenava con le scansie vuote un nugolo vorticoso di associazioni, immagini e riferimenti, in una direzione e nell’altra: dal libro come cibo, di cui sono ricchi Antico e Nuovo Testamento (Ez 2, 8-9 e 3, 3; Dt 8, 3; Mt e Lc 4, 4; Ap 10, 10), al banchetto come luogo generativo di cultura, da Platone a Plutarco, da Ateneo a Petronio, da Stephen Pigghe a Baldassarre Castiglione. Socrate e Gesù di Nazaret quel che fecero, lo fecero a tavola, scriveva George Steiner. Con Sidival Fila la Sala Barberini, sempre in penombra, ha ospitato un vero e proprio monumento a quanto nella nostra società dei consumi, ma anche falsamente ecologista, racchiude il senso dell’inutile. Un albero trovato morto sul ciglio della strada, anziché essere gettato o trasformato in altro – magari in pasta da carta o in una libreria – è stato recuperato, tinto d’oro e installato al posto d’onore, a ricordare che le cose, e ancor più le persone, hanno valore in loro stesse. A prescindere dall’uso che possiamo farne.
A partire dal primo marzo prossimo, infine, la Sala Barberini ospiterà l’ultima tappa di una nuova mostra, che la Biblioteca Vaticana ha concepito insieme al fotografo, regista e scrittore francese Alain Fleischer, e che rimarrà aperta fino al 22 giugno. Il titolo è «Souvenirs de Babel»e l’installazione site specific ideata dall’artista è, questa volta, sonora. Anche in questo caso, non sarà presente nemmeno un volume sulle scansie della biblioteca-teatro, eppure se ne udranno le voci, la babele delle lingue – italiano, francese, ungherese, castigliano e catalano, arabo, cinese ed etiopico, tra le altre – risuonare e sovrapporsi senza sosta. Oltre la materialità di supporti, degli inchiostri e delle tecniche di scrittura. Entrarvi dà i brividi, ma soprattutto ribadisce a tutti, bibliotecari e funzionari in primis, che il vuoto ha valore in sé. Che fa spazio, ispira e permette di andare oltre. Che va rispettato e mantenuto come un tesoro, perché è condizione della lettura e del piacere di essa. Che il vuoto è una garanzia per il proprio presente e per il proprio futuro, perché è il correlato della nostra incompletezza e la sua ammissione più naturale. Un antidoto formidabile contro la presunzione.