Corriere della Sera, 28 febbraio 2024
L’accusa di fascismo mi ha rovinato la vita
In questi ultimi tempi di calma forzata per via di un incidente, ho avuto tempo di leggere diversi quotidiani al giorno, cosa che abitualmente non riesco a fare. Oltre all’orrore delle notizie sulle guerre in corso e sulle follie della cronaca nera, la cosa che mi ha colpito di più è l’ossessivo ritornello sul rischio del ritorno del fascismo, un po’ come se fossimo nella fortezza del tenente Drogo del Deserto dei Tartari. Arrivano i tartari? Non arrivano? Chissà, intanto comunque scrutiamo ossessivamente l’orizzonte.
Essendo uno spirito anarchico non ho mai avuto alcuna particolare passione per la politica, malgrado ciò da un giorno all’altro, precisamente nel gennaio del 1997, sono diventata improvvisamente un’esponente di spicco del fascismo. Fino ad allora avevo vissuto convinta di essere Cappuccetto Rosso che passeggiava svagata nel bosco e invece, a un tratto, mi ero trasformata nel Lupo, e a quel lupo tutti volevano fare una sola cosa: sparargli. Che cos’era successo? Era uscito il mio quarto libro, Anima Mundi, un percorso di profonda indagine sul male: il male della storia e il male che abita il cuore dell’uomo. Dato che sono cresciuta a Trieste e che conoscevo le tragedie avvenute al di là del confine – in quella che allora si chiamava Jugoslavia – avevo preso ispirazione da quei luoghi e da quegli avvenimenti, raccontando, tra le altre cose, la grande tragedia toccata a militanti socialisti e comunisti che, per idealismo, si erano trasferiti nella giovane Repubblica socialista e che, quando Tito si era staccato dall’Urss, si erano trovati improvvisamente dalla parte del nemico perché il Partito comunista italiano era rimasto fedele all’Unione Sovietica. Il fatto che le persone pagassero in modo così alto la fedeltà a un’idea mi aveva profondamente turbato. Non era una mia fantasia o interpretazione: ci sono libri che raccontano questi fatti oltre alle terribili testimonianze dei sopravvissuti di Goli Otok, l’isola lager in cui erano stati rinchiusi. L’evento storico serviva a mettere a fuoco la grande domanda sul male, ma il vero filo rosso che accompagnava la storia dell’amicizia ventennale tra due ragazzi molto diversi tra loro era il cammino verso la redenzione. Non a caso si chiudeva con le parole di san Francesco, «perdonando, si è perdonati; morendo, si rinasce a nuova vita»: un percorso interiore che si intersecava con quello, molto spesso tragico, della storia.
Proprio per questo, per essermi trasformata in ventiquattr’ore da Cappuccetto Rosso nel Lupo, ho iniziato a farmi molte domande sul fascismo, partendo prima di tutto da me stessa: potevo riconoscere degli atteggiamenti f. in me? Non mi pareva. Non avevo letto nessuno degli autori di culto della destra – Jünger, Celine, Tolkien, Evola. Certo, discendevo in parte da esuli dalmati e questo, nell’immaginario nazionale, proietta sulle persone un’ombra minacciosa; praticavo arti marziali, e questa poteva essere un’altra ombra. Mio padre però era un ammiratore di Mao, al punto tale da voler imparare a quarant’anni il cinese per trasferirsi in Cina. Trasferimento attuato, ma durato pochissimo; conservo una copia del suo Libretto rosso in cinese come una reliquia. Mia madre era una fan di Santoro, non si perdeva nessun talk show politico e schiumava rabbia anche il giorno dopo, se c’erano stati ospiti a lei non graditi.
È sufficiente dunque parlare di un fatto storico avvenuto in un Paese comunista per essere classificata come f. nel 1997, quando la storia aveva già iniziato a svelare molte tragedie avvenute oltre cortina, come si diceva allora? Essere f. comunque, da un giorno all’altro, senza aver studiato la parte, non è stato facile. Un f. è un f. e contro di lui è lecito tutto. Una mattina ho visto il mio cognome sul muro con su scritto «a morte»; ho imparato ad avere paura a uscire di casa, a entrare in un negozio, in un bar, in qualsiasi posto in cui potevo venire identificata. Persone del mondo culturale, che fino ad allora avevano mostrato grande simpatia nei miei confronti, hanno interrotto bruscamente i rapporti. Alcuni passanti, vedendomi, facevano il saluto fascista; quando entravo in una libreria, i frequentatori ne uscivano indignati oppure mi sibilavano con occhi pieni di disprezzo: «Io non la leggo per principio», senza degnarsi di dire quale fosse il principio. Una volta in treno un signore, vedendomi entrare, si è alzato, ha preso la sua valigia ed è uscito dicendo: «Non viaggerò mai accanto a lei». E che dire di quella volta che, arrivata con un’ambulanza in codice rosso in un ospedale, il medico mi ha accolto in sala operatoria con queste parole: «Guardi che qui dentro siamo tutti comunisti». Era nel 2006, nove anni dopo dalla mia «condanna». Che cosa sarebbe successo se un episodio analogo, con il termine «fascisti» al posto di «comunisti», fosse accaduto a uno scrittore considerato dalla parte «giusta» e magari anche maschio? Come minimo settimane di articoli sui giornali. E dato che la calunnia è un venticello che in breve si trasforma in tempesta, un giorno sono perfino stata chiamata da un grande quotidiano spagnolo per avere conferma della mia candidatura al posto di Gianfranco Fini alla guida del suo movimento. E che dire di quella figura nobile della cultura di sinistra che proclamò desolata alla stampa che, da quel momento in poi, si sarebbe vergognata in quanto italiana di andare all’estero dato che io ero stata tradotta in tutto il mondo? Ad un certo punto, dopo anni di persecuzioni, Oriana Fallaci, sconvolta dalla campagna di odio nei miei confronti, disse che lei non sarebbe sopravvissuta neppure ad un quarto di quello che avevo dovuto sopportare io. E sì che lei aveva una tempra molto diversa dalla mia, era una guerriera nata, amante della polemica, oltre che un’intrepida inviata di guerra.
Il danno, naturalmente, si è riverberato anche a livello professionale e, dato che in trentacinque anni di vita pubblica non ho mai dimostrato alcuna avidità mondana, ne posso parlare con tranquillità. Ogni tanto qualcuno mi chiede il voto per lo Strega, ma devo sempre deluderlo perché, nonostante io abbia partecipato nel 1991, prima di essere f., con Per voce sola senza peraltro arrivare in cinquina, non mi è mai stato chiesto di diventare un Amico della Domenica, come mai, nei trentatré anni seguenti e con trenta libri pubblicati, non sono stata candidata al premio. Sono forse paranoica? Non direi dato che ancora nell’autunno del 2023 in una grande libreria di Roma il mio ultimo libro, Il vento soffia dove vuole, era esposto a testa in giù, poco lontano da quello dell’attuale presidente del Consiglio. Commesso sbadato, o lettore politicamente impegnato? Chissà. Intanto il messaggio è uno solo: è così che devono finire i f. A testa in giù.
In un Paese poi in cui le lauree honoris causa piovono con generosa abbondanza – ne ha tre il simpatico Lino Banfi e undici Roberto Benigni – nessuno mi ha mai preso in considerazione come persona meritevole di un tale titolo. Sono una maestra elementare e maestra elementare rimarrò per sempre. Una volta, a dire il vero, un’università di Roma mi ha invitato a fare una conferenza nell’Aula Magna, ma sono venute a sentirmi solo sette persone, di cui tre, mi hanno confessato alla fine, soltanto perché mi odiavano.
Per queste ragioni, per via della mia vita e della mia carriera rovinate, posso riflettere con pacata serenità sul reale pericolo del fascismo nel 2024, ben centodue anni dopo la marcia su Roma e ottantuno anni dalla fine ufficiale del regime. In un tempo sul cui orizzonte si accumulano nuvole cupe, in cui la società di distrazione di massa viene governata da oligarchie dal volto sempre più opaco e il vero rischio futuro è che gran parte della popolazione mondiale venga trasformata, come dice papa Francesco, in cibo pronto ad essere divorato dagli algoritmi, non è forse un residuo paranoico continuare a sventolare la minaccia del fascismo in ogni dibattito o intervento giornalistico?
Una ventina di anni fa, su invito dell’allora direttore dell’Istituto di cultura italiano di Londra, Mario Fortunato, ho avuto il privilegio di fare un incontro con Ken Loach. Ero stata io a scegliere l’interlocutore e lo ricordo come un dialogo molto bello. Alla fine, una giornalista alza la mano e chiede: «Signor Loach, come mai, lei che è una persona di sinistra, ha accettato di incontrare la Tamaro che è... è...» quella parolina stentava ad uscire. «Lo dica pure» l’ho incoraggiata, ma Ken Loach è intervenuto prima: «Io non so cosa sia la signora Tamaro, ma sono convinto che il mondo sia diviso in due categorie, le persone di buona volontà e quello che non lo sono. E sicuramente la signora Tamaro è una persona di buona volontà, come me».
Buona volontà, ecco la parola illuminante! Esiste un bene, ed esiste la volontà individuale di andare incontro a questo bene. E allora, prima di lanciare squilli di allarme, bisognerebbe imparare a volgere lo sguardo nel nostro cuore e accorgersi che in tutti noi dorme, sospeso su un’amaca, un piccolo squadrista e che solo la consapevolezza di quest’ospite invisibile impedisce il suo fanatico risveglio. Siamo fascisti ogni volta in cui pensiamo che le cose vadano male per colpa dell’altro, ogni volta che ci sentiamo superiori; ogni volta in cui invece di accogliere, giudichiamo; invece di capire, deridiamo. L’assenza di un’idea di bene che ci trascende, e verso la quale dovremmo muoverci con la forza della volontà, è la causa di ogni fascismo interiore perché, alla fine, le scelte di vita sono due: vivere secondo la buona volontà o vivere secondo la propria volontà; propria, o del proprio gruppo, della parte in cui si è caparbiamente convinti di aver ragione. La negazione del bene e della positività che ne discende è l’anima di ferro del nichilismo che pervade il nostro sogno delle sorti magnifiche e progressive. Eppure incontrare un insegnante di buona volontà sulla strada è diverso da incontrarne uno di propria; così un medico, un vicino di casa, un amico.
Forse allora, in un momento di mutamento antropologico così importante, bisogna trovare il coraggio di mettere al centro dell’umano il discorso del bene, perché il seme del bene esiste da sempre nel nostro cuore e la negazione della sua centralità sta portando la nostra società alla deriva. Ma è un seme appunto, e come tutti i semi richiede l’attenzione della cura per crescere e germogliare. Solo quest’attenzione costante sarà in grado di trasformarlo in una pianta rigogliosa, l’unica capace di zittire per sempre il piccolo squadrista addormentato sull’amaca.