la Repubblica, 27 febbraio 2024
Intervista a Sara Gama
ROMA – Le compagne l’hanno salutata indossando parrucche ricce come lei, e non è un caso: quei capelli sono diventati un simbolo riconosciuto anche all’estero. Sara Gama ha detto addio alla Nazionale dopo 140 presenze, una scelta drastica, ma meditata. “Lo sketch delle mie compagne con la parrucca lo racconterò per anni. Ci abbiamo scherzato tutta la sera. Poi la sera dopo a Coverciano abbiamo avuto un momento più intimo, ci siamo commosse”.
Sara, quando ha capito che il calcio sarebbe stato il suo mestiere?
“Quando a 16 anni passai al Tavagnacco: mi diedero i primi 100 euro, mi sembrava incredibile mi pagassero per giocare, venivo dalla squadra in cui giocai due anni nelle giovanili e con cui dalla Serie C alla Serie B con la prima squadra: pagavamo la retta e i dirigenti erano tutti genitori. Ma quei soldi erano rimborsi spese, nella testa c’era sempre di prepararsi a fare altro nella vita”.
Ricorda il suo primo pallone?
“Uno di quelli leggeri, colorati: me lo regalò mio nonno, me lo portavo dappertutto. In famiglia nessuno amava il calcio, semmai più i motori”.
Qualcuno ha mai provato a dirle da piccola: lascia stare?
“Al contrario, i genitori del mio migliore amico mi portarono nella loro squadra, visto che giocavo sempre con lui e i miei amici. Nessuno cercò mai di dissuadermi, almeno di chi era vicino a me: semmai qualcuno fuori, perché la vedeva come una cosa inusuale. Per anni in tutta Trieste ero l’unica ragazzina a giocare a calcio e mi vedevano come una scoperta, ragazzi, genitori”.
Quali sono i suoi interessi fuori dal calcio?
“Musei, teatro, concerti, semplicemente una cena con gli amici. Ma vivo a Torino, qui c’è anche tanto sport da vedere: sono stata alle Final Eight di basket, l’anno scorso ho visto vincere Brescia con i miei amici bresciani, ho visto anche le Atp Finals di tennis dal vivo, Sinner-Rune a novembre, un anno fa la finale Djokovic-Ruud”.
E altri sport li ha praticati?
“Da piccola correvo per la scuola: mezzofondo. Una squadra di atletica mi ha fatto iscrivere perché andavo forte sulla resistenza. Ma con i miei amici giocavamo soprattutto a calcio, anche se abbiamo giocato anche a tennis in un circolo di avvocati di cui mi davano le chiavi per provare il dritto contro un muro. Ma mai a livello serio”.
A proposito di tennis: Sinner ha detto che odia i social e li usa solo per lavoro. Lei?
“Quasi lo stesso. Oggi dietro uno schermo ci si permette di dire cose che di persona nessuno avrebbe il coraggio di dire. Questo ha un impatto sulla vita dei calciatori, delle calciatrici: si propagano opinioni positive o negative a macchia d’olio e incide sulla qualità di vita di atlete e atleti. Possono fare molto male, anche gli eccessi positivi”.
Una curiosità: è vero che le calciatrici si truccano prima di giocare?
“Alcune calciatrici si truccano prima di andare in campo, sì, ma perché fa notizia? I calciatori si pettinano, fanno la skin care e vanno dal parrucchiere, mica si curano solo le donne: il calcio non è più solo sport ma anche molta immagine. È cambiato il mondo, prima che lo sport”.
Lei il calcio ha provato a cambiarlo da dirigente: è tra chi ha inciso davvero per ottenere il professionismo femminile.
“Ho visto compagne lasciare la Nazionale per accettare offerte di lavoro vere: l’idea era che una ragazza non potesse vivere giocando a calcio. O se sì, per quanto? Volevo far sì che non succedesse più”.
Che effetto le fa essere stata un simbolo?
“Simbolo ti ci fanno diventare gli altri, riconoscendoti un ruolo. Io ho solo cercato di espormi per ciò in cui credevo e se lo fai capita di scontrarti contro qualcuno o contro qualcosa”.
Contro chi si è dovuta scontrare?
“Sono tanti. Parlo di chi pensa che il calcio non si possa declinare al femminile”.
Come quegli allenatori che, per criticare i propri giocatori, dicono che hanno giocato da femminucce.
“Se ne sono sentite. Ma sono il retaggio di cose che vengono da molto molto lontano. Il calcio femminile è nato con quello maschile in Inghilterra a fine ‘800 ma poi è andato a singhiozzo. In Italia è nato solo nel 1933 a Milano, poi il fascismo lo ha bandito per l’idea che facesse male alle donne. Certe frasi arrivano da questa cultura, da questa ignoranza. Ma per cambiare questo retaggio ci vuole tempo”.
Che effetto le fece il caso di Jenni Hermoso nella finale dei Mondiali estivi?
“Chi non ha ancora capito come bisogna rapportarsi con una atleta di alto livello è figlio dello stesso retaggio”.
Quali sono i prossimi obiettivi?
“Vorrei si facesse di più per permettere alle bambine che vogliono giocare a calcio di farlo: non ci sono abbastanza strutture che possano accoglierle vicino casa e non tutte hanno genitori che possono accompagnarle a 45 minuti di auto di distanza, E chi non li ha, poi lascia”.
È stata in Consiglio Federale come quota rosa: non rischiano.
“Anni fa avrei detto: macché quote rosa, io voglio conquistarmi tutto. Poi negli anni mi sono resa conto che puoi meritare, come ho fatto io, e dimostrarti valido, e alla fine il ruolo te lo offrono, come fece L’Assocalciatori con me. Ma uomini e donne ancora non hanno le stesse opportunità e in questo le quote rosa forse servono per entrare in un mondo. Ma non basta: bisogna incentivare la formazione di dirigenti donne. Poi sta a noi andarci a prendere ciò che meritiamo”.
In futuro si vede allenatrice?
“Mai sentito la spinta di fare quella carriera: alcune mie compagne hanno già fatto i corsi da remoto come Girelli, Rosucci, Cernoia, Bonansea. Io da dieci anni ho scelto una carriera più politica, sono vice presidente Aic. Ho fatto il corso da direttore sportivo, il mio percorso è questo. Poi, mai dire mai: di allenare non lo escludo a priori”.
L’esclusione dai Mondiali: dopo più di sei mesi, si è data una spiegazione?
“Ho le mie opinioni, ma penso al presente e mi tengo il bel ricordo di questa Nations League: abbiamo battuto le campionesse del mondo della Spagna, chiuso seconde davanti alla Svezia. Quel che è stato è stato, mi tengo le tante cose belle”.