Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  febbraio 27 Martedì calendario

Marguerite Duras, la mia nemica amatissima

«Si può scrivere conservando il cognome del padre?» le domandò nel 1974 Xavière GauthierDuras rispose che non le era mai sembrato possibile, nemmeno per un secondo. «Ma non ho mai cercato di sapere perché mi faceva tanto orrore il mio cognome, al punto che a malapena riesco a pronunciarlo. Non ho avuto un padre». Allo psicanalista canadese François Peraldi confessò che alla morte del padre non aveva versato una lacrima; poi, quando qualche anno dopo era morto il suo cane, aveva sofferto terribilmente.

Alcuni ritengono che il rifiuto del cognome paterno implichi un rifiuto del padre. Se pensiamo che l’etimologia di Donnadieu allude al sacro, tanto da suggerire un’unione con Dio, o un donarsi a Dio (morendo come il genitore?), allora questo rifiuto del Padre acquisisce un valore assoluto. D’altronde Duras nega l’esistenza di Dio, ma nella sua produzione letteraria non fa che accusarlo, evocarlo, metterlo al centro di ogni riflessione, paragonarlo al desiderio.
L’orfanità è una condizione umana, la condizione tragica dell’umanità intera: Duras l’ha compreso ben prima dell’età della ragione, perdendo chi avrebbe dovuto proteggerla mentre era ancora una bambina. L’assenza del padre ha liberato la possibilità della tragedia, gettando la famiglia nella miseria e la madre nella follia.
«Lei ha sempre parlato poco di suo padre», le ricorda Leopoldina Pallotta della Torre. E Duras commenta: «Forse perché, senza saperlo, è stato a lui che, vivendo, ho continuato a scrivere. Perdevo e ritrovavo gli uomini come fossero stati mio padre». A differenza di quanto succede in altri suoi testi, nell’esordio di Duras, Gli impudenti, un padre c’è, è Monsieur Taneran. Ma è un padre sbiadito, taciturno, privo di potere, quasi indifferente alle traversie della famiglia.
Il figlio maggiore Jacques è invece forte, ha potere e ne abusa, vorrebbe esercitare perfino un potere di morte su chi gli è accanto, al pari di un dio. La famiglia è asservita al dispotismo di Jacques, che è la vera figura paterna, e patriarcale, del romanzo.
«Autoritario, ci faceva paura», disse Duras di suo fratello Pierre: «tuttora lo associo al personaggio di Robert Mitchum in La Nuit du chasseur, un misto tra l’istinto paterno e quello criminale. Da lì, credo, deriva la stessa diffidenza che ho sempre provato per gli uomini». Senza teorizzarlo, quasi inconsciamente, l’autrice associa la paternità al crimine e in quest’associazione identifica il nucleo del maschile. Quando ne L’amant definisce la propria «une famille en pierre» è evidente che sta evocando anche il fratello Pierre; che è l’oppressione da lui inflitta agli altri a pietrificarli in questo «spessore inaccessibile».
Eppure Marie Grand-Taneran reputa Jacques addirittura il «più buono» dei tre, il più «premuroso», e giustifica la preferenza per lui con il fatto che ogni madre è devota al più «disgraziato» dei suoi figli. Non può certo confessare il legame edipico di cui, come Marie Legrand, la madre di Duras, sembra essere la responsabile.
A proposito del rapporto fra madre e figlio, l’autrice scrisse: «Una madre che lo preferiva a tutto, a noi, a tutti. E lui, oggetto innocente della fantastica fascinazione che esercita su di lei, si augura che lei muoia per non essere più preferito a nessuno e sprofondare lentamente, anche lui, nella sorte comune, nel gorgo comune degli orfani del mondo».
Il primo dolore di Duras viene da lì, dalla sproporzione, dall’iniquità di quel sentimento, che mortifica l’amore da lei provato per la madre – «viveva in me fino all’ossessione. Sarei morta, credo, da bambina, se fosse morta lei». Quella madre che «si sbarazzava di colpo delle cose e delle persone dopo averle amate con violenza, incapace di affezionarsi profondamente allo stesso oggetto», come madame Grand-Taneran, e che come lei si assopiva sotto un pergolato, la «faccia umile e stanca da sconfitta».
Quella madre che non leggeva mai, pur essendo una maestra, che aveva paura degli intellettuali, di tutto ciò che poteva sfuggirle, che disapprovava la scelta della figlia di scrivere invece di insegnare matematica o darsi al commercio, che non ha apprezzato nessuno dei suoi libri, e anzi da quei libri si è sentita violata e fraintesa e calunniata, quella madre che soffriva di un «endemico senso di miseria», da cui è stato difficile per la figlia liberarsi, con i primi esami all’università, forse, con la distanza da lei, quella madre da evadere, una galera, quella madre che si sentiva inferiore ai funzionari e ai doganieri della colonia, quella maestra delle colonie che stendeva stuoie in casa e dava da mangiare ai bambini indigeni, e lavava ogni giorno i pavimenti e le pulizie erano festa, quella madre vedova, e povera, e ingannata dalla corruzione delle colonie, quella donna sola e ormai pazza di fronte alla diga come di fronte a una sorte avversa ingiunta dagli dèi, quella figura tragica che si intestardisce a coltivare una terra soggetta a cicliche inondazioni, che in preda a un’incontenibile hybris vuole addirittura arginare il Pacifico, neanche fosse possibile arrestare l’oceano, quella donna senza amore romantico, senza sesso, senza orgasmo per un’intera vita, almeno agli occhi della figlia, quel meraviglioso personaggio romanzesco, con il suo amore “isterico” per i figli, l’avversione per la tenerezza, niente auguri di compleanno, niente baci, né buongiorno e buonasera, percosse sulle gambe della femmina mentre il primogenito urla, incita alla punizione più severa, e poi l’ansia dei microbi e di provviste in credenza, che la figlia ha ereditato, la capacità di fare «di ogni giorno una novità così violenta»: il lavoro il cibo il sonno i bambini come un’avventura quotidiana.
Madre rifugio domestico, madre terra selvaggia, madre comica, madre odore puro di sapone di Marsiglia, madre che suona al piano le arie imparate a scuola, madre che grida la verità come un messaggero divino, non bisogna aspettarsi niente, niente, dalle persone, dallo Stato, o da Dio, madre che canta Sambre et Meuse imbracciando un bastone come un fucile per giocare alla guerra davanti ai figli, e poi scoppia a piangere pensando ai fratelli caduti a Verdun, madre disperata che non sa sottrarli allo spettacolo della disperazione, che è innocente mentre rovina i figli per sempre, mentre inermi ed esposti come si è solo nell’infanzia, questi figli, pur così diversi tra loro, la amano alla follia.
È lei il personaggio durassiano per eccellenza, l’origine di tutto ciò che sarà. È lei a dominare la scena fin da Gli impudenti.

Il libro
Gli impudenti 
di Marguerite Duras (Feltrinelli, traduzione e nota di Letizia Imola, pagg. 250, euro 22). Questo testo è un estratto dalla postfazione