Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  gennaio 02 Martedì calendario

Biografia di Gioele Dix (David Ottolenghi)

Gioele Dix (David Ottolenghi), nato a Milano il 3 gennaio 1956 (68 anni). Attore. Comico. Cabarettista. «È uno dei teatranti italiani di punta. Autore dalla battuta tagliente. Colto e allergico alla banalità» (Michele Weiss). «Quel bel signore alto, con gli occhi azzurri e la voce profonda» (Egle Santolini). «Da qualche tempo ha virato verso la figura del moderno narratore di storie antiche» (Angela Calvini) • Lunghissima gavetta. Imparò il mestiere al Teatro dell’Elfo di Milano, dove fu scoperto da Franco Parenti. «I teatri più importanti d’Italia li ho fatti tutti. Sì, proprio quelli con i palchi e gli abbonati…». Cabarettista allo Zelig, storico locale meneghino. Grande popolarità grazie alla televisione tra gli anni Novanta e gli anni Duemila: volto di punta di Mai dire gol (Italia 1, 1997-2001), in cui imitava Alberto Tomba; visto poi a Zelig (Canale 5, 2007-2016), in cui interpretava il personaggio dell’automobilista incazzato («E pensare che io da anni viaggio solo in scooter…») • Ha lavorato anche come doppiatore, attore di cinema, regista teatrale, scrittore e drammaturgo. Ha puntato sulla commistione tra classico e comico, tra le altre cose, con Edipo.com, La Bibbia ha (quasi) sempre ragione e una sua versione di Sogno di una notte di mezza estate. Ha recitato in Sono tornato (Luca Miniero, 2018), Bene ma non benissino (Francesco Madelli, 2018) e Lei mi parla ancora (Pupi Avati, 2021). Nel libro Quando tutto questo sarà finito (Mondadori, 2014) ha raccontato la storia della sua famiglia, perseguitata dalle leggi razziali • Prima di raccontare Gioele Dix, mi spiega chi è David Ottolenghi? «Sulla carta di identità c’è scritto attore» (Elvira Serra).
Titoli di testa «Ho sempre avuto la tendenza a buttarla sul ridere. Anche se dentro ho i miei pessimismi, le mie ombrosità...» (Egle Santolini, Specchio 27/6/1998).
Vita «Sono nato la mattina del 3 gennaio 1956. Nevicava di brutto già dalla notte prima. Non che mi ricordi, me l’ha raccontato mio padre. Dice che, nell’ansia e la fretta di portare in tempo mia madre in clinica, per poco non ci capottavamo tutti e tre» (da gioeledix.it) • Famiglia della borghesia milanese, casa in zona Città Studi. Il padre di David fa l’avvocato. «Da mio padre Vittorio ho preso il grande amore per il ragionamento, per l’arte oratoria, per l’intergrità. Da mia madre, Roberta, casalinga, una bella dose di fragilità. E l’amore per la letteratura. Era capace di leggere tre volte lo stesso libro: la prima per vedere come andava a finire, la seconda per cogliere quello che si era persa, la terza per gustarlo» (Elvira Serra, CdS 12/1/2022) • Origini ebraiche. «È stato grazie a mio nonno paterno, Maurizio, che ho compreso la necessità di avere un’identità religiosa, soprattutto come punto di riferimento etico. Viveva la religione in maniera tradizionale… del tipo “Ricordati che Dio ti vede sempre”, frase che mi ripeteva con una certa frequenza. Come si sa, l’ebraismo possiede una grande varietà di sfumature, e vi vengono accettate le più diverse gradazioni: nessuno, lì, ha il diritto di dirti: tu sei fuori… anche se, pure qui, c’è chi si sente più uguale degli altri! La mia formazione è dunque legata a una religiosità tradizionale, con le feste rituali e il tempo dedicato alla preghiera…». All’epoca David ignora che il nonno Maurizio, già direttore di un setificio a Como, dopo l’8 settembre era riuscito a far riparare moglie e figli piccoli in Svizzera. Le leggi razziali hanno segnato la vita della famiglia Ottolenghi. Sono stati anni difficili: le umilizioni, le privazioni, la paura, la fuga, la morte di un fratellino ammalatosi in un campo profughi. «Tutto questo aveva lasciato segni profondi nel carattere di mio padre» • Quando ha sette anni David si mette in testa che da grande avrebbe fatto l’attore. «Per quanto mi sforzi, davvero non colgo un legame tra la recitazione e la tradizione yiddish. Certo nella mia famiglia vige un modo speciale di guardare la realtà: sempre un po’ spostato, un po’ di sbieco, un po’ fuori fuoco…». «Semplicemente, capivo di esserci portato, perché sapevo spesso cavarmi d’impaccio recitando. Il mio cavallo di battaglia era la finta emicrania per saltare gli allenamenti di nuoto (ho fatto nuoto per otto anni e il mio allenatore mi massacrava per il mio scarso rendimento nella rana, che cavolo gli importasse non so, nelle gare di dorso prendevo le medaglie, ma lui niente, sei sotto i tempi! devi migliorare la rana! gli sportivi sono fatti così…). Nessuno in famiglia si intendeva di recitazione, se si esclude la mia geniale nonna Giulietta che rendeva tutto un teatro e, per conseguenza, la vita di mio nonno Maurizio tutto un inferno. Insomma, ho dovuto arrangiarmi» (da gioeledix.it) • Davíd prende la maturità al Parini, poi si iscrive all’Università ma senza mai arrivare alla laurea. «Ho fatto psicologia e poi legge, cioè due argomenti che mi hanno sempre affascinato. La psiche, perché se ti ammali soffri molto di più che se ti ammali nel corpo soltanto. La legge, perché all’inizio ti mette in soggezione, ma se poi la conosci ti appare come una meravigliosa elaborazione della civiltà, come la base stessa della convivenza [...] Poi? Servizio militare, un po’ d’indecisione sul futuro, qualche esame. Intanto mi chiama un vecchio amico che ha messo su una cooperativa di attori. Facciamo animazione nelle scuole, mi dice: vuoi venire anche tu? Cosa che a ripensarci mi fa ridere, perché adesso gli animatori sono figure istituzionali, forse anche con un albo professionale, e noi eravamo quattro sciamannati allo sbaraglio. Capisco che mi piace. Gli altri poco a poco si staccano dal gruppo, è tutta gente con un altro lavoro. Io invece continuo» • La strada della recitazione non è mica facile. «Provini, audizioni, foto di qua e di là, attese, promesse, pochi spiragli, tanti chilometri a vuoto. Come diceva il mio amico Bruno Olivieri, al tempo attore in cerca di fortuna come me: “molto movimento, nessuna direzione”. Confesso che, quando mi capitava di leggere qualche dolente intervista a certi figli d’arte condannati a combattere col fantasma dei loro padri, mi incazzavo parecchio. Ma proprio con Bruno e altri coraggiosi colleghi trovammo il modo di mettere in piedi una Compagnia, poi diventata Cooperativa, il Teatro degli Eguali. Il nome scelto era orgogliosamente programmatico […]: dedicarsi al mestiere dell’attore, con la convinzione che il teatro potesse essere utile anche agli altri e non soltanto al nostro individuale narcisismo» (da gioeledix.it) • Prima grande occasione: lo chiama Antonio Salines, attore e regista, che lo vuole nella sua tournée. Poi lo chiama Franco Parenti. «All’audizione porto un monologo di Karl Valentin: un po’ rielaborato. Lui si diverte molto. Ma ci vuole un bel po’ prima che mi chiami”. Si arriva così alla famosa illuminazione della vitella e al duro tirocinio con il Maestro. “Un calvario. Mi diceva che non valevo niente. Che non recitavo: anzi, che facevo soltanto rumore. Ma intanto mi stimava, e mi insegnava tutto. Si andava in scena alle nove e lui alle sei era con me, a provare, a sentirmi. Una bella rottura, sul momento, ma se ci pensa bene io faticavo tre ore in più ma quelle ore le perdeva pure lui. Parenti mi diceva che dovevo imparare a recitare il pensiero, e cioè le parole che non contano. Al limite dovresti arrivare a dir dei numeri, persino a respirare soltanto: devi far capire cosa c’è dietro al testo con la sola forza della tua recitazione» (Santolini). «Era un tipo brusco e severo, Franco. Ma mi spronava con passione a migliorarmi. I suoi metodi con me furono sempre all’insegna dell’insulto amoroso: una sera, nel suo camerino al Teatro La Pergola di Firenze, sintetizzò così il suo pensiero sullo stato della mia arte: “Non sei male, ma per ora, più che recitare, tu fai rumore”. Capii più avanti che, nel suo linguaggio arcigno, queste parole equivalevano a un attestato di stima» (da gioeledix.it). «Ho rubato tantissimo a Parenti, lo spiavo: il suo personaggio fa un lavoro di rimessa, da fondo campo; lui poteva stare zitto per quindici minuti e poi solo con due battute otteneva l’applauso» • «In molti, nell’ambiente, parlavano degli alti e bassi, a volte improvvisi e imprevedibili, di cui la carriera dell’attore è disseminata. Ascoltavo indifferente, quasi con fastidio, parole che mi parevano dettate più che altro da frustrazione, da quella deprecabile vocazione al lamento, piuttosto diffusa fra i creativi. In fondo – pensavo – io ne sono fuori, sono un giovane attore in ascesa, ogni anno una scrittura sempre più importante, che mi potrà mai capitare? E invece, proprio all’improvviso e senza apparente spiegazione, il vuoto. Prima uno spettacolo già pronto che salta, poi l’esclusione da un progetto per far posto a un altro (un figlio d’arte!) e via con una serie di vedremo, le faremo sapere, magari la prossima volta, tecnicamente una serie incalcolabile di sfighe. E intanto mi ero sposato e avevamo avuto una dolcissima bambina. La spiavo nel buio della sua stanzetta dopo averla fatta faticosamente addormentare e pensavo: “Ma a questa che le racconto quando smetteranno di piacerle le fiabe? Di un ragazzo che voleva fare l’attore e che ora gestisce un autolavaggio?” (Un autolavaggio? Sì, l’immaginario di un attore in crisi è sempre tragicomico). Bene, tagliamo corto su questa lacrimevole vicenda. Negli anni a seguire, grazie a qualche buona nuova idea, parecchia intraprendenza e una certa dose di fortuna sono riuscito a riprendere quota. Ho cercato di puntare su di me, ho cominciato a scrivere spettacoli e a inventarmi personaggi, senza aspettare passivamente che fossero altri a propormi una parte (anche perché non mi arrivavano proposte da nessuna parte). “Vedrai, fra qualche anno ti farai un nome” mi dicevano fiduciosi gli amici e i parenti che affollavano – solo loro – il mio one man show al Derby di Milano. Anticipando tutti, decisi di farmelo da solo, il nome. In un pomeriggio di novembre del 1987, a pochi giorni dal mio debutto allo Zelig, voluto fortemente dal mio amico Giancarlo Bozzo, caddi preda di un delirio anagrafico creativo: decine di nomi su un foglio, altrettanti cognomi su un altro, semplici, astrusi, ridicoli, onomatopeici. Per ore a cercare l’incastro giusto e infine, stremato e privo di qualsiasi lucidità, ho scelto. Gioele Dix. Ricordo perfettamente il mio pensiero definitivo: non funzionerà mai» (da gioeledix.it) • Come ha scelto il nome d’arte? «Gioele per rendere omaggio al mondo biblico che mi appartiene. Mi piaceva l’idea del profeta, quello delle cavallette. Ai tempi non era molto usato, tant’è che anni dopo mi intervistarono perché c’era stato un incremento significativo dei bambini con il mio nome. Mi capita ancora che vengano in camerino genitori che mostrano orgogliosi i loro piccolo Gioelini». E Dix? «Perché a scuola tutti storpiavano il mio cognome, Ottolenghi. Poi un giorno un prof di disegno cominciò a chiamarmi “Ottodix”, dal pittore tedesco di cui ho apprezzato l’impegno artistico e politico». La svolta arriva con l’«automobilista incazzato». Non le spiace che tutti le chiedano ancora quel personaggio? «No, al contrario. Crearlo è stato la mia rinascita: è mio figlio. Ero un attore di prosa che, per definizione, può lavorare anche in un teatro vuoto. Anzi, se mi accorgevo di qualcuno che dormiva in fondo Ottavia Piccolo mi rassicurava: “Certi dormono già quando si apre il sipario, qui in prima fila, solo che tu non li guardi mai”. Insomma, vedevo che quelli che arrivavano dal cabaret avevano un rapporto più aggressivo con il pubblico, riuscivano a coinvolgerlo. Così ho lavorato su questo nuovo personaggio, da un’intuizione mentre guidavo: ero io, e potevano essere tutti. Da lì arrivarono le tv: Odeon, Rai 2 e Maurizio Costanzo. Dall’86 all’88 passai dall’anonimato alla fama. Dunque, per tornare alla sua domanda, di quel personaggio ne vado orgoglioso. Certo, non puoi campare solo su un colpo di genio. Ma mi capita ancora che magari al teatro dopo aver fatto Molière venga uno in camerino per chiedermi la foto con gli occhiali da sole. Io lo accontento: imparai da Gino Bramieri a essere disponibilissimo con tutti. Lui raccontava anche le barzellette, se gliele chiedevano». Alberto Tomba è un altro suo cavallo di battaglia. Come la prese? «All’inizio non bene: si lamentò perché lui la parola “gnocca” non la usava. Poi andai a trovarlo a casa sua per l’ultima puntata di Mai dire Gol, sulle colline bolognesi, e sull’asfalto vicino all’ingresso trovai scritto in vernice bianca: “Viva la gnocca”. Allora protestai: “Ma come?”. E lui (e qui lo imita perfettamente, ndr): “Bravo, l’han scritto dopo che l’hai detto te, mica prima!”» (Serra).
Amori Due mogli. Dalla prima ha avuto una figlia, Marta, che ha tre figli a sua volta: Sara, Giulia e Alessandro. Dalla seconda, Mara, venticinque anni meno di lui, che fa la consulente d’azienda, ne ha avuti altri due Maurizio e Massimo.
Politica Qual è la sua più grande insofferenza? «Girando per l’Italia vedo centinaia di persone di culture diverse e questo mescolamento credo che sia positivo. Mi dà fastidio che ci sia questa insofferenza verso un qualcosa che è inarrestabile» (Andrea Tinti, CdS 2/12/2022).
Religione Un suo grande amico, Renzo, che faceva il Carducci quando era al Parini, era cattolico praticante e lo invitò a conoscere don Giussani. Davíd rimase molto impressionato («Fece una predica bellissima») ma non per questo rinnegò l’ebraismo. «Io a Renzo dicevo che era più avanti di me perché pregava in modo stabile e organizzato. Lui rispondeva che c’era per lui il rischio di pregare in modo meccanico, ed era meglio quello che facevo io che pregavo con i fatti» • «A me piace la Bibbia sporca di sugo, quando è vissuta, e non bollata come un testo per addetti ai lavori» • «Per me la presenza di Dio non è in discussione» • «Dio non è una presenza invasiva, però l’idea che esista una figura divina personificata è una necessità: basta che non la si prenda alla lettera. Siamo noi uomini ad avere bisogno di dare un volto alla nostra coscienza».
Curiosità Interista • Cresciuto a pane e Giorgio Gaber • Un po’ gli dispiace di non aver mai preso la laurea • Non fa vita mondana • «Quando esplose il mio successo e mi trasferii per lavoro a Roma mi dissero subito: se vuoi farti paparazzare devi andare in quei bagni lì a Fregene o in questi quattro ristoranti a Roma. Ecco, mai frequentati. Né allora né oggi» • Adora le vecchie foto, agli amici chiede di portargli le loro foto da bambini • Il suo amico ciellino, Renzo, morì in un incidente d’auto nei pressi di Trezzo sull’Adda nel febbraio 1986. Aveva 29 anni e un bambino di soli tre mesi. «Nello stesso anno, il 13 aprile, ci fu la storica visita di papa Giovanni Paolo II alla sinagoga. Qui il Pontefice disse: “Abbiamo delle radici comuni, voi siete i nostri fratelli prediletti. Anzi, in un certo senso si può dire che siete i nostri fratelli maggiori”. Ecco, questa invenzione linguistica spiega molto bene quello che eravamo io e lui: avevamo un’origine comune. Inoltre ci integravamo molto bene proprio in forza delle nostre differenze» • È stato ospite al Meeting di Rimini. «I ciellini sono dei chiacchieroni spaventosi… ma anche gli ebrei! Non facciamo altro che parlare e spaccare il capello in quattro!» • Dice che anche lui, come suo padre, quando nevica non sa montare le catene • I suoi genitori sono morti nel 2019, quasi insieme. «Mia madre se n’è andata il 2 aprile, mio padre il 22. Si erano sposati l’11 aprile. Ho pensato spesso a quella coincidenza: 22 diviso due fa undici. Quando se ne vanno, i tuoi genitori lasciano un buco incolmabile. Gli altri ti dicono “vedrai, ti parleranno, li ritroverai...”. Balle. Poi un giorno capisci che li ha dentro, e prima non li trovavi perché li cercavi fuori. Da lì non se ne andranno più. Resti figlio per sempre» • «Più passano gli anni e più mi trovo d’accordo con l’Ecclesiaste: “Mangia nella gioia il tuo pane e bevi di buon animo il tuo vino, perché questo Dio ti è già stato benigno”».
Titoli di coda «Stavo facendo al Parenti uno spettacolo sulla Bibbia. Arrivano gli applausi finali, poi dal buio vedo avvicinarsi una rosa che cammina e quella rosa la teneva in mano una mia ex fidanzata. Era scesa dalle poltrone più in alto, mi si era avvicinata con la rosa e aveva detto solo: “Sei sempre magico”. Poi è andata via. Non l’ho rivista mai più» (Serra).