3 gennaio 2024
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Biografia di Fabrizio Bentivoglio
Fabrizio Bentivoglio, nato a Milano il 4 gennaio 1957 (67 anni). Attore. «La più grande fortuna è di far coincidere la passione con il proprio lavoro, ed è quello che mi è capitato» (a Emilia Costantini) • Figlio unico di un dentista e di una casalinga. «Da ragazzino avevo uno zio pensionato che si era messo a dirigere una filodrammatica al Teatro dell’Arte di Milano, e si divertiva a mettere in scena testi in vernacolo meneghino. Io andavo a curiosare dietro le quinte: probabilmente è lì che, senza me ne accorgessi, ha preso forma l’idea di diventare attore» (a Elisabetta Colangelo). In ogni caso, al liceo scientifico Leonardo da Vinci di Milano «andavo male perché pensavo solo al calcio». «Ho giocato negli Allievi dell’Inter nel 1970/71, quando l’Inter vinse lo scudetto con Invernizzi e il presidente era Ivanoe Fraizzoli, quindi posso dire di aver vinto uno scudetto anch’io!» (a Gabriella Mancini). «Sognavo di diventare un Mariolino Corso… ma il ginocchio mi ha tradito» (a Massimiliano Castellani). «“I miei genitori non ne erano felicissimi, e una brutta caduta, con relativo problema serio a un ginocchio, mi fece interrompere gli allenamenti, fortunatamente”. Addirittura una fortuna! “Non l’ho vissuta come una tragedia, anzi… Papà e mamma avevano ragione: non ero adatto”. […] Il suo destino lavorativo sembrava dovesse essere quello di fare il dentista. “Mio padre lo era e, quando frequentavo ancora il liceo, la mia strada appariva già segnata. Lui nel frattempo era mancato e, quando superai la maturità, per mantenere fede a una mezza promessa che gli avevo fatto, decisi di iscrivermi alla facoltà di Medicina”. Ma non era la strada giusta… “Assolutamente no. Pur avendo sostenuto tutti gli esami del primo anno, non riuscivo a entrare nella fascinazione delle materie, mentre guardavo con stupore i miei compagni di studio ai quali brillavano gli occhi quando assistevamo a qualche lezione di anatomia. Per carità, partecipavo con attenzione, ma a me gli occhi non brillavano. E poi il caso vuole che mi capita di sentire un’intervista”. Quale? “Avevo l’abitudine di studiare con Radio Popolare perennemente accesa, un’emittente milanese seguitissima. E un pomeriggio ascoltai l’intervista a un neodiplomato alla Scuola Paolo Grassi [Luciano Mastellari – ndr]: raccontava con dovizia di dettagli come funzionava l’istituto, i docenti, le caratteristiche dell’insegnamento, gli sbocchi… E per me chiudere il libro e correre a iscrivermi per sostenere l’esame di ammissione fu un tutt’uno”. E la promessa fatta al papà? “In realtà, molti anni dopo la sua scomparsa ho scoperto delle foto dove lui, giovanissimo, era in palcoscenico: non so cosa stesse facendo, cosa recitasse, forse una roba da teatro amatoriale, però evidentemente una passione doveva averla nel Dna e deve avermela trasmessa. Però lui da potenziale attore è passato a fare il dentista, io da potenziale dentista sono passato a fare l’attore”» (Costantini). «Per entrare alla scuola del Piccolo Teatro mi chiesero una canzone: andò bene» (a Rodolfo Di Giammarco). «Dopo aver studiato nel 1976/77 alla scuola del Piccolo Teatro di Milano, esordisce nel 1978 con due spettacoli, Timone d’Atene, regia di Carlo Rivolta, e La tempesta, regia di Strehler al Piccolo Teatro di Milano, che lo rivelano immediatamente come uno dei più duttili e dotati attori della nuova generazione» (Felice Cappa e Piero Gelli). «Strehler e i suoi spettacoli, come Il campiello o Il giardino dei ciliegi, hanno formato il mio gusto teatrale. Al provino mi sconsigliarono di portare il Macbeth, perché, per ragioni che non ho mai saputo, Strehler non gradiva quel testo, e così ripiegai sull’Amleto. Attaccai con il monologo di Ecuba, e lui in fondo alla sala lo ripeteva con me, a memoria. A un certo punto lo recitava avanzando lentamente lungo la platea… fino a dirmi “Basta, va bene così!”. È un’immagine che mi torna spesso in mente e che mi fa stare bene». «Sono stato fortunato perché essere preso dalla Compagnia dei Giovani con De Lullo – primo attore Valli, drammaturgo Patroni Griffi, costumista Pizzi con la magia della sartoria Tirelli –, essere accolto nel mondo viscontiano ed essere trattato alla pari, già solo quello per un ventenne è un’iniezione di fiducia» (a Silvia Fumarola). «Nel 1979 recita al Teatro Quirino di Roma ne I parenti terribili di Cocteau, diretto da Franco Enriquez, e l’anno dopo è sempre nella capitale, all’Eliseo, in Prima del silenzio con la regia di Patroni Griffi. Seguono L’avaro (1981), regia di Mario Scaccia, e, ancora sotto la direzione di Patroni Griffi, Gli amanti dei miei amanti sono miei amanti (1982), Metti, una sera a cena (1983) e D’amore si muore (1985), tutti testi del regista» (Cappa e Gelli). Nel frattempo Bentivoglio aveva anche esordito sul grande schermo, con Il bandito dagli occhi azzurri di Alfredo Giannetti e Masoch di Franco Brogi Taviani, entrambi del 1980, cui seguì, l’anno successivo, La storia vera della signora dalle camelie di Mauro Bolognini. «L’incontro con G. Salvatores in Marrakech Express (1989) e in Turné (1990) fa di lui il simbolo del trentenne intellettuale, idealista e un po’ insicuro. Per nulla schiavo del suo fascino personale, accetta ruoli “scomodi” come la guardia che scappa con una zingara in Un’anima divisa in due (1993) di S. Soldini e il prete pedofilo in Pianese Nunzio, 14 anni a maggio (1996) di A. Capuano. A film d’impegno civile come Un eroe borghese (1995) di M. Placido e Testimone a rischio (1997) di P. Pozzessere alterna pellicole di ispirazione letteraria come Le affinità elettive (1996) dei fratelli Taviani e La balia (1999) di M. Bellocchio. È l’insegnante di violoncello di La parola amore esiste (1998) di M. Calopresti, il malinconico ladro di reliquie in La lingua del santo (2000) di C. Mazzacurati e il marito frustrato in Ricordati di me (2003) di G. Muccino. Pur continuando l’attività di attore (L’amore ritorna, 2004, e La terra, 2006, di S. Rubini; L’amico di famiglia, 2006, di P. Sorrentino; La giusta distanza, 2007, di C. Mazzacurati), B. passa dietro la macchina da presa per il suo primo film da regista, Lascia perdere, Johnny! (2007), nostalgico e ironico bildungsroman di un giovane musicista che tenta la fortuna emigrando da Caserta a Milano» (Gianni Canova). Dismesso da tempo il suo sdegnoso rifiuto del mezzo televisivo («Non faccio televisione. Io ho bisogno di molto tempo per lavorare bene, e la tv non concede tempo. Non mi piace la popolarità: vorrei non esser riconosciuto per strada. Detesto le interruzioni pubblicitarie, che obbligano a un linguaggio semplificato. No, finché posso, non faccio la fiction. Non mi interessa»: così a Simonetta Robiony, su La Stampa, nel gennaio 2006), da anni Bentivoglio alterna principalmente produzioni cinematografiche (Happy family e Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores, Una sconfinata giovinezza di Pupi Avati, La sedia della felicità di Carlo Mazzacurati, Il capitale umano di Paolo Virzì, Forever Young di Fausto Brizzi, Loro di Paolo Sorrentino, L’incredibile storia dell’Isola delle Rose di Sydney Sibilia) e televisive (Nel nome del male di Alex Infascelli, Benvenuti a tavola – Nord vs Sud di Francesco Miccichè, Romanzo siciliano di Lucio Pellegrini, Il nome della rosa di Giacomo Battiato, Raul Gardini di Francesco Miccichè), con qualche sporadica incursione teatrale (L’ora di ricevimento di Stefano Massini, Lettura clandestina. La solitudine del satiro di Ennio Flaiano). In Monterossi, serie di Roan Johnson tratta dai libri di Alessandro Robecchi (editi da Sellerio), attualmente alla seconda stagione su Amazon Video, «interpreta un autore televisivo, Carlo Monterossi, che molla il programma che lo ha reso celebre, Crazy love, fulgido esempio di tv trash, viene minacciato di morte e inizia a indagare. […] Chi è Monterossi? […] Un autore tv che si vergogna? “È nauseato dalla tv del dolore che ha nutrito e che mette alla berlina il privato delle persone. […] Monterossi è un vincente involontario innamorato dei perdenti. Le sue caratteristiche sono il disincanto e l’ironia, è un borghese benestante ancora capace di dire ‘no’ di fronte all’ingiustizia: questo fa di lui un detective anomalo. […] Non indaga: attraversa vite, si incuriosisce del lato morale e umano. Là dove appunto il giusto non è legale e il legale non è mai giusto”» (Fumarola). «Questa è la sua prima volta in un progetto di lunga serialità… “Sì, e mi piace. Alcune serie tv sono fatte così bene che sono anche migliori di certi film. Oggi c’è una cura straordinaria nei progetti seriali con una forte attenzione al registro stilistico e drammaturgico”» (Antonella Silvestri). Da ultimo, «Gabriele Salvatores […] lo ha diretto nel Ritorno di Casanova, […] affidandogli il ruolo ingrato del seduttore in crisi, piegato nel corpo, ma non nel carattere. […] Al centro del Ritorno di Casanova c’è il nodo della vecchiaia, del passare del tempo. Lei come lo vive? “Casanova, nel turbinio delle sue metamorfosi, non si è accorto di essere invecchiato, non se ne è proprio reso conto. È sorpreso. E questa, oltre a renderlo simpatico, è una cosa successa anche a me. Me la sono spiegata con il fatto che, avendoli persi molto presto, non ho visto i miei genitori invecchiare, e quindi la vecchiaia non mi è stata insegnata. Non ho previsto che potesse accadere anche a me”» (Fulvia Caprara). Prossimamente tornerà nelle sale cinematografiche nel ruolo del protagonista di Eterno visionario di Michele Placido, pellicola dedicata ai rapporti di Luigi Pirandello con le donne della sua vita • Grande passione per la musica, sin dall’adolescenza. «A 15 anni mi ricordo con una chitarra in mano a suonare Fabrizio De André, non con Shakespeare. È una passione segreta, privata, coltivata da cantante casalingo, per gli amici». «“Con il Quintetto di Musicanormale pubblicai il disco Sottotraccia. La musica è un grande amore. […] Stupendo è stato quel tour con la Piccola Orchestra Avion Travel, con cui portammo in scena l’operina musicale La guerra vista dalla luna”. Alla chitarra c’era il tocco inconfondibile di Fausto Mesolella (morto nel 2017), al quale ha dedicato il suo film Lascia perdere, Johnny!, che è rimasta la sua prima e unica regia. “Quel film, con Peppe e Toni Servillo nel cast, è stato un omaggio a un amico e a un maestro come Fausto che mi ha fatto scoprire la magia della chitarra. Quando lo rivedo penso che non è niente male e che forse un’altra capatina dietro la macchina da presa prima o poi vorrei farla…”» (Castellani) • Dopo una lunga relazione con Valeria Golino (classe 1965), nel 2012 ha sposato la collega Silvia Pippia (1976), madre dei suoi tre figli (Vera, Federico e Matteo). «Sono partito tardi. Vera è nata quando avevo già 50 anni, e fin lì nessuno avrebbe mai potuto sospettare che avrei messo al mondo un figlio, figuriamoci addirittura tre. La paternità poi ti fa maturare, ma io mi ritengo comunque un padre fallace. Perché un genitore è condannato a sbagliare, qualsiasi cosa faccia. E il tentativo è solo quello di ridurre gli sbagli al minimo indispensabile. […] I ragazzi seguiranno le mie orme? Non credo. Federico mi ha già spiegato che non gli interessa: “Papà, ci sono troppe cose da imparare a memoria”» • «Lei è nato e cresciuto a Milano. Che ricordi ha? “Molto belli, gli anni della mia prima formazione. Certo, era un’altra Milano: alle Varesine, io ci vedo ancora il vecchio luna park. Ora ci sono grattacieli e grattacieli (la zona di Porta Nuova, ndr)”» (Maria Volpe). «I Navigli mi fanno sentire a casa. Quando torno da Roma, in quei locali incontro gli amici di sempre: è bello perché si ricomincia a parlare come se il tempo non fosse mai passato. […] Tra i luoghi del cuore voglio aggiungere San Siro, con preghiera a Sala di non farlo abbattere e di renderlo disponibile solo per l’Inter. […] La città è cambiata ma restano l’organizzazione, la pulizia, il gusto antico di fare bene le cose. In questo mi riconosco molto milanese» • «Per descriversi Fabrizio Bentivoglio offre una spiegazione semplice: “Basti sapere che sono tifoso dell’Inter. Per esserlo ci vogliono coronarie di ferro, bisogna essere abituati a subire sconfitte amarissime sapendo che, in ogni caso, non si cambierà bandiera, ma si continuerà a soffrire, rischiando di diventare masochisti”» (Caprara) • «“La mia formazione è teatrale, Strehler era convinto che la poesia aiutasse a vivere meglio: io lo seguivo, ma questo mi ha fatto sentire un po’ scollato dalla mia generazione. Mentre provavo, in palcoscenico, al buio, sentivo fuori, in via Larga, i tumulti dei miei coetanei. Solo dopo ho capito che il mio lavoro poteva servire a portare avanti un altro tipo di battaglia”. Tornerebbe indietro e cambierebbe tutto? “No, ma il cruccio su quel periodo resta: si è provato a mettere in atto un cambiamento, l’obiettivo non è stato raggiunto, ma adesso è troppo facile giudicare. La verità è che ora si può parlare, al massimo, di rivoluzione culturale e di linguaggio”» (Caprara). «Non ho mai posseduto tessere di partito, tuttavia mi sento orfano di qualcuno che mi rappresenti veramente». «Lei, Bentivoglio incarna la figura dell’artista di sinistra che “si dà le arie”: quando andò a Porta a porta per il lancio di Ricordati di me di Gabriele Muccino aveva l’aria disgustata, di uno che era stato trascinato in catene… “So di non avere un’immagine simpatica, forse presuntuosa, e non mi pongo il problema di smentire, anche se ritengo di essere più simpatico di come vengo percepito. È vero che a Porta a porta sono stato costretto ad andare: ero fuori posto, imbarazzato. Non mi pongo molto il problema: io non sono un politico”» (Paolo D’Agostini) • «È tecnologico? “Lievemente”. Rapporto con i social? “Non sono adatto: non ho la fregola di raccontare a tutti quello che mi succede, la mia vita privata è esattamente come dice la parola”» (Fumarola) • «Uomo ombroso e suo malgrado bello» (Caprara). «Fabrizio Bentivoglio sembra sempre così serio. E lo è, ma scavando è anche molto ironico» (Volpe) • «È un attore bravo. Bravo perché recita bene, ma anche perché sceglie con attenzione cosa fare, lavora con persone che stima e a cui vuol bene, partecipa, se può, alla creazione del personaggio, si impegna con onestà nella messa a fuoco di un ruolo che vorrebbe fosse eseguito “a regola d’arte”, secondo la formula che usavano un tempo gli artigiani e che oggi gli piacerebbe fosse messa alla fine dei film, tra i titoli di coda. Per lui meglio poco ma buono che tanto e sciatto. E tempo, molto tempo, perché si riesca a esprimere esattamente ciò che si vuole» (Simonetta Robiony) • «C’è solo un modo per salvare il cinema: puntare al bellissimo. Ogni cosa brutta che si fa ci danneggia tutti. A proposito, quando io leggo nelle recensioni “Bentivoglio bravo come al solito”, io mi offendo perché non è vero: io cerco di fare sempre meglio film dopo film, altro che “come al solito”!» • «“Io appartengo a una generazione che ha censurato il valore della leggerezza. La migliore lezione, professionale e di gusto, l’ho ricevuta da Anna Miserocchi (la voce di Anne Bancroft): ‘Quando ti offrono una parte drammatica trova sempre un momento per far sorridere, quando ti offrono una parte comica trova sempre un momento per commuovere’”. […] I ruoli estremi sono un invito per l’attore? “È un luogo comune. Tutte le parti sono invitanti. E vale sempre la stessa questione, indefinibile, della misura. Che non ti puoi illudere di aver trovato una volta per sempre. La devi ritrovare, anche da un ciak all’altro. L’attore deve preoccuparsi di nascondere quello che vuole esprimere. È un palombaro in immersione. Almeno questa è la mia chiave. […] E poi conta il rapporto con il regista. Non vuol dire niente dire di un attore che è ‘bravo’ senza considerare questa bravura in rapporto a chi lo ‘suona’. Perché l’attore è uno strumento, e il suo risultato dipende da chi lo suona e dalla partitura che viene eseguita. Dalla sensibilità di chi lo dirige. […] L’attore sarà bravo se gli viene chiesto, e nel modo giusto. Altrimenti la sua potenzialità può anche non uscire mai. E non è detto che col tempo si diventi migliori e non peggiori”. […] “Conta conoscere il dolore. Come persona, non come attore. Ma, a rischio di deludere, ecco quello che penso, con Mastroianni. Se qualcuno esaltava De Niro che per Toro scatenato era ingrassato di non so quanti chili, rispondeva: ‘Noi ci mettiamo il cuscino’. L’attore è un lavoro”» (D’Agostini) • «Sono stato fortunato, lungo la strada ho incontrato diversi maestri. In teatro Giorgio Strehler, che mi diede un ruolo ne La tempesta. E, quando mi sono affacciato al cinema, Silvio Soldini e Gabriele Salvatores, coi quali è nato un rapporto che non si è mai interrotto. I personaggi che mi sono rimasti dentro? Sono affezionato a tutti, ma forse quelli esistiti realmente, come Giorgio Ambrosoli, nel film di Michele Placido Un eroe borghese, li ho sentiti più miei. Perché ho conosciuto le persone che li avevano amati» • «Le è capitato di dire dei no? “Sono un professionista del no. Per il resto rimango un efferato dilettante”» (Caprara).